Profughi invisibili

GIORDANIA, 2009
Centinaia di migliaia di persone in fuga dall’Iraq verso i Paesi vicini nell’indifferenza del mondo. Una diaspora silenziosa in Giordania, dove secondo le stime ufficiali i profughi sono 500.000, anche se fonti locali parlano addirittura di oltre un milione di esuli.

L’esodo cominciato nel 2003, dopo l’occupazione Usa dell’Iraq, ha raggiunto proporzioni bibliche se si contano le altre centinaia di migliaia d’iracheni scappati in Siria e Libano

di Francesca Lancini

Bambini iracheni. Amman, Giordania, 2009, foto di Marta Zaccaron

DOCUMENTARIO: TRASMESSO DA SKY TG24 – 2009-2010

Quei profughi invisibili in fuga dall’Iraq

Giordania, 2009. Il piccolo regno Hashemita, diviso dall’Iraq dal Deserto Giordano orientale e noto per la sua politica d’accoglienza dei palestinesi, che oggi rappresentano circa il 60% della popolazione, ha assunto una posizione ambigua verso gli iracheni: da una parte li fa entrare e dall’altra non riconosce loro lo status di rifugiati.

Sono profughi “invisibili”, dispersi nelle principali aree urbane, senza campi dove essere soccorsi e senza la possibilità di lavorare in modo legale, di usufruire dell’assistenza sanitaria pubblica e – fino all’anno scorso – di mandare i figli a scuola. Adesso possono andare, ma gli istituti statali sono spesso in sovrannumero e i ragazzini esuli non riescono a iscriversi.

Le testimonianze di alcune famiglie

In questo purgatorio mediorientale vive Mariam Isak, una donna musulmana di 46 anni che ha lasciato Baghdad nel 2006, con il marito e il figlio di 4 anni:

“Sono scappata per i motivi di tutti i profughi: gli attentati, le uccisioni sommarie, i rapimenti, ma qui la vita è difficile”.

E aggiunge:  “Non possiamo lavorare e ci manteniamo con le rimesse che mia sorella ci manda dall’Australia”.

Uscendo dalla palazzina ricoperta da un pergolato di viti, volgiamo lo sguardo intorno ad Al Hashmie, un quartiere povero di Amman. La sua posizione, però, toglie il fiato: è adagiato su uno dei sette colli sabbiosi della capitale giordana, da cui si vede la parte vecchia, brulicante di mercanti che si aggirano fra i vicoli stretti. La nostra guida, logista per la sezione italiana di Terres Des Hommes (TDH), unica Ong del nostro Paese ad assistere i profughi iracheni in Giordania, è anche lei irachena e abita a pochi passi da Mariam. In casa di Thaer Elas Hnani, che vive con moglie, tre figli di età compresa fra i 3 e gli 11 anni e la madre 74enne, sono appesi al muro un calendario di Padre Pio, una corona di Natale e la foto di Chiara Lubic, fondatrice dei Focolari, movimento cattolico cui aderisce tutta la famiglia Hnani.

“Per noi cristiani del quartiere di Dora, a Baghdad la vita era diventata impossibile”, racconta Thaer. “Alcuni sconosciuti, dopo avermi preso tutti i soldi e l’auto, mi hanno tenuto prigioniero per tre giorni. Sono stato rilasciato solo dopo il pagamento di un riscatto da parte dei miei parenti. Così ho deciso di venire in Giordania con mia sorella. Siamo andati in auto fino a Erbil e poi lì abbiamo preso l’aereo per Amman. Due mesi dopo mi hanno seguito moglie e figli, e un mese fa è arrivata anche mia madre”. L’anziana signora aggiunge: “Baghdad è la mia terra, ma ho scelto di scappare da sola, in aereo, a quest’età, perché c’erano attentati e uccisioni ogni giorno. Mancava l’acqua potabile e il prezzo del cibo era salito alle stelle”.
“Ecco”, insiste Thaer, “tutte queste cose di base, elettricità, acqua, cibo, libertà di movimento, ai tempi di Saddam c’erano”. “Certo, era dura”, ammette. “Ho fatto tanti lavori, ma riuscivamo a sopravvivere. Ora non desidero tornare in Iraq perché anche fra cinquant’anni non sarà mai come prima della guerra. Tutto ciò che ho costruito in Iraq è perduto”.

L'analisi

Elisa Visconti, responsabile di TDH Italia per Giordania, Iraq e Palestina, spiega:

“Le tre grandi confessioni religiose presenti in Iraq sono rappresentate qui con le stesse percentuali: 64% di musulmani sunniti, 19% di musulmani sciiti e 17% di cristiani. La maggior parte proviene dalla classe media e ciò significa che in Iraq sono rimasti i più vulnerabili”.

In Giordania moltissimi iracheni si ritrovano poverissimi dopo aver finito tutti i risparmi. Abitano in sottoscala, baracche, appartamenti spogli di una o due stanze. A Zarqa, “la città blu” in arabo, che oggi si è trasformata in un agglomerato nel deserto di 700mila abitanti alla periferia nord di Amman, dove l’aria può essere soffocante e la temperatura raggiungere i 50 gradi, se ne trovano tanti in queste condizioni.

I traumi

All’ultimo piano di un palazzo strettissimo e fatiscente vive una giovane donna sunnita con marito e 4 figli dagli 11 mesi agli 11 anni. Quando entriamo nel suo appartamento (una sola stanza con una sedia, una tv, un frigorifero, un girello e due materassini a terra), Sondos Islaba si sistema il velo e ci osserva con gli occhi cerchiati e la carnagione pallida. Da tempo soffre di depressione. Ha tentato il suicidio, non ha le forze per badare alla casa e alla famiglia e di solito non vuole vedere nessuno. A noi, tuttavia, in un momento di lucidità regala uno splendido sorriso e spiega il motivo della sua inquietudine: “Mio nipote di sedici anni è stato ucciso davanti ai miei occhi. Gli hanno tagliato braccia e gambe, e sparato un colpo in fronte. Da allora non dormo più. Se penso al mio Paese, vedo solo cadaveri”.

Giovanna Roncoroni, psicologa di TDH, conosce bene Sondos: “Il 30% della popolazione rifugiata è stato rapito o ha visto commettere violenze sui propri cari, ma i casi di trauma appaiono solo nelle persone psicologicamente più fragili. Per gli altri, sui traumi prevalgono le urgenze del quotidiano”. Si stima, per esempio, che il 20% soffra di malnutrizione. “Questa situazione di precarietà”, continua Roncoroni, “e la consapevolezza che qui non hanno alcun futuro causano molte depressioni e tensioni famigliari che spesso degenerano in violenze domestiche. Gli uomini diventano vulnerabili perché perdono il ruolo principale che avevano in famiglia, ovvero quello di portare i soldi a casa. Si sentono inutili e spesso mi confidano di sedersi in un posto isolato a piangere”.

Violenze indicibili, la storia del piccolo Hamed

Il nostro viaggio prosegue attraverso il deserto di fosfati (la maggiore risorsa del Paese) che circonda Zarqa. Alle discariche a cielo aperto si alternano vialetti asfaltati con ulivi e case basse in muratura. In una di queste ci accoglie Hadia Enad Menshe, sciita di 34 anni e madre di sei figli. Il marito, ex poliziotto che in Iraq ha subito vari tentativi d’assassinio, è in ospedale per curarsi dallo shock della perdita del settimo figlio. “Un giorno”, racconta Hadia fra le lacrime, “lui sentì gridare il bambino dal cortile. Corse fuori e vide che lo avevano sgozzato. Si chiamava Hamed e aveva solo tre anni”.
La foto del piccolo, con dietro lo sfondo del tempio dell’Imam Hussein a Kerbala, è dentro una cornice importante, come se fosse anche lui un martire. “Era il 2006 e per scappare da Baghdad ad Amman abbiamo impiegato 3 giorni di autobus. Al confine abbiamo incontrato altre famiglie e per entrare ognuno di noi ha dovuto pagare 40 dollari” Ciò che accade lungo la frontiera giordano-irachena resta un mistero. Di sicuro la statale che unisce Amman a Baghdad è stata per lunghi tratti una delle strade più pericolose al mondo, per la presenza di predoni detti ali-baba, dal nome del protagonista dell’antica fiaba araba.

La fuga attraverso il deserto con gli ali-baba

Si dice che diverse persone, tra cui bambini, che tentano di attraversare questa no man’s land, perdano la vita durante la fuga. Proviamo a far luce sui viaggi misteriosi a una stazione pubblica d’auto che fanno la spola fra Amman e Baghdad. Gli autisti sono uomini di una stazza enorme, proprio com’è Ali Baba nel nostro immaginario, ma ci rivelano poco di come fanno ad attraversare ogni volta incolumi quei 1100 chilometri nel deserto. Riusciamo a sapere solo che il noleggio dell’auto con un guidatore costa mille dollari. Di solito caricano sei persone che si dividono la spesa. È più conveniente di un biglietto aereo che costerebbe 700 dollari a testa.

Chi arriva ad Amman è un miracolato, ma presto si trova abbandonato a sé stesso. L’unico senso di tranquillità può arrivargli dalla registrazione presso l’UNHCR (Alto Commissariato Onu per i Rifugiati) che gli dà una carta per attestare il suo stato di richiedente asilo politico. L’incontro con Ziad Ayad, responsabile della comunicazione per il centro UNHCR ad Amman, dura il tempo di rispondere alle nostre domande.

Asilo politico e paura delle deportazioni

Non è permesso parlare con i profughi che attendono nella sala d’attesa e far loro fotografie. La maggior parte delle registrazioni (circa 54mila su almeno 500mila rifugiati) è stata fatta dall’inizio del 2007, quando è cresciuto l’esodo per il peggioramento della situazione in Iraq ed è stato migliorato l’accesso all’edificio Onu.

“Solo il 25% dei profughi iracheni in Giordania si è registrato all’UNHCR”, spiega Visconti. “Gli altri non possono farlo per vari motivi. Esiste un unico centro di registrazione ad Amman, in un posto difficile da raggiungere e aperto per poche ore al giorno. Per i profughi pagare 2 dinari (poco più di 2 euro, ndr.) per prendere un autobus può voler dire non avere da mangiare per due giorni, e la paura costante di essere rimandati indietro è un fortissimo deterrente per non affrontare spostamenti”. Ayad dice che non esiste una campagna di deportazione e detenzione di massa. Solo il fatto di essere clandestini creerebbe tensione nei profughi, ma senza reali motivi: “Le autorità giordane chiudono non un occhio, ma due”.

Visconti non è d’accordo: “Fino al settembre 2007 ci sono stati moltissimi casi di deportazione, soprattutto di uomini celibi fra i venti e i trent’anni, considerati la categoria più a rischio per la sicurezza: gli attentatori agli alberghi di Amman del 2005 erano uomini soli in questa fascia d’età”. Ayad insiste: “In passato il governo giordano ha aperto le porte ai palestinesi, agli iracheni degli anni Novanta, ai sudanesi, agli yememiti, ai somali”. Poi nel 2003 con la guerra in Iraq la situazione è precipitata. Quando nel 1998 l’UNHCR ha firmato un “Memorandum of Understanding” con l’esecutivo giordano per operare qui, non poteva prevedere questo flusso di massa. Ma dato che oggi tutto è cambiato, perché non rivedere il Memorandum e concedere agli iracheni lo status di rifugiati?

Vivere da profughi in Giordania

A parte la lotta al terrorismo, sia Ayad sia Visconti concordano su un punto: la Giordania è in serie difficoltà economiche. Non ha risorse naturali e deve far fronte a un alto tasso di disoccupazione e inflazione. Per un Paese di 6 milioni di abitanti, che vivono con uno stipendio medio di 250-300 euro al mese, è difficile gestire 500mila nuovi arrivi in pochi anni.
Per garantirsi un futuro, dunque, un iracheno che arriva in Giordania ha due possibilità: se è ricco può comprarsi la residenza con 150mila dinari (165mila euro), se è povero deve pagare una tassa di 1,5 dinari al giorno (1,65 euro). La maggior parte dei profughi, però, non ha abbastanza soldi, s’indebita con lo Stato giordano e spera che l’UNHCR l’aiuti a trasferirsi in un Paese terzo: “Una possibilità limitata concessa solo ai più vulnerabili”.
“Il mio sogno è di continuare a dipingere”, dice Sheima, una ragazza velata di 23 anni, che frequenta il laboratorio d’arte del centro di TDH, finanziato in parte dall’UNHCR, a Zarqa. È presente a ogni lezione per decorare con estrema delicatezza le ceramiche.
A Babilonia ha frequentato il liceo, ma nel 2004 è dovuta fuggire perché un gruppo armato, probabilmente sunnita, minacciava di morte la sua famiglia. Per Sheima e tutti gli altri profughi è difficile capire chi sono i gruppi islamici estremisti, sciiti, sunniti, di derivazione iraniana o altro, che attentano alla vita dei civili. Per loro non esistono divisioni: Sheima è sciita, ma sposata a un giordano sunnita. È emblematico il caso di un uomo che pur volendo rimanere anonimo ci ha raccontato: “I radicali sciiti mi volevano uccidere perché sono sunnita e i radicali sunniti perché lavoravo per l’esercito statunitense. Ero tra due fuochi”.

Il centro di TDH di Zarqa è un luogo per ricominciare a vivere. Aperto sia ai giordani in difficoltà che ai profughi iracheni, per non discriminare fra poveri che abitano in uno stesso territorio, è frequentato soprattutto da donne e bambini. Vivian, sulla quarantina, fa il corso di computer. Tarek, 11 anni, ascolta assorto il narratore di favole. Kifa, 44 anni, frequenta il corso di cucina. Un altro gruppo di ragazze è chiuso nel salone di bellezza per apprendere a fare l’estetista o semplicemente dedicarsi un po’ di cure. Dall’altra parte del corridoio una donna entra nella sala d’ascolto, dove la psicologa la sta aspettando. Arriva la sera.

Avere vent'anni in esilio forzato

Il centro sta per chiudere e ad Amman ci aspetta Saif, un ventenne iracheno che lavora in un Internet cafè. Sulla vetrina sono disegnate tre bandiere: giordana, irachena e palestinese, e infatti la clientela è mista, anche se sono soprattutto gli iracheni a recarsi qui per avere notizie dai loro cari. Il ragazzo sunnita ci mostra subito una lettera che anni fa ha trovato sotto il garage di casa sua in Iraq e dice che contiene minacce di morte di una milizia sciita. È serio in volto, quando ricostruisce tutta la storia: “La mia famiglia è scappata dopo la caduta di Saddam perché mio padre era un suo funzionario. Lui è stato il primo ad arrivare in Giordania. Poi, dopo essere stato minacciato e sequestrato per un mese, sono partito anch’io”. La paura si legge ancora negli occhi di Saif che, con quella lettera in mano, una delle tante intimidazioni ricevute, dice di essere disposto a fare qualsiasi lavoro pur di non tornare in Iraq e di lasciare qualsiasi Paese arabo.

Come lui probabilmente la pensano anche alcuni adolescenti che frequentano una sala giochi vicina, gestita e frequentata da iracheni. I ragazzini potrebbero essere usciti da un liceo milanese. Hanno i capelli curati, come si usa quando si esce la sera prima del fine-settimana (il giovedì per i musulmani). Naturalmente non ci sono ragazze, che in Giordania non escono mai sole e soprattutto di notte. Tra i biliardi, i biliardini e i ping pong dello stanzone con le luci al neon, i giovani scappati dalla guerra irachena trovano un momento di svago. Può sembrare paradossale che sognino di trasferirsi in Gran Bretagna e Stati Uniti, le cui amministrazioni hanno trasformato l’Iraq in una polveriera. All’arrivo di Saif tutti lo salutano con una stretta di mano e lui per un momento sorride.

FONTI
ARTICOLO: FRANCESCA LANCINI PER EAST – 2009