Gering: le relazioni tra Cina e Israele, Hamas, Houti e Iran. Con una critica durissima a Netanyahu e alla politica del suo Paese.
Sono state settimane folli. Prima gli incendi sulle colline di Gerusalemme, con lo spaventoso e per fortuna inascoltato invito di Hamas a “bruciare tutto” e poi un razzo lanciato dai ribelli Houti contro l’aeroporto di Tel Aviv. “Credo che siano stati bruciati 25 chilometri quadrati di foreste, ma io e la mia famiglia siamo riusciti a tornare a casa dopo un solo giorno. Giusto in tempo per sentire forte e chiaro il missile”, racconta da Gerusalemme, Tuvia Gering, studioso dell’Atlantic Council che si occupa del ruolo della Cina in Medio Oriente.
In Italia se ne parla poco ma, come spiega il ricercatore in questa articolata intervista, la politica estera ed economica cinese è strettamente legata a Israele, ai palestinesi e al regime iraniano che aiuta a sopravvivere. Le relazioni fra Cina e Israele affondano le radici nella Guerra Fredda e si sono rimodulati dopo il massacro del 7 ottobre 2023, anche con derive antisemite sui media cinesi. Su questo argomento Gering ha tenuto una lectio alla John Cabot University di Roma poco tempo fa, evidenziando come Israele sia usato per attaccare gli Stati Uniti.
Il sinologo, che ha insegnato ebraico e vissuto con la comunità dei discendenti ebrei di Kaifeng, nella provincia di Henan, ci aiuta a disegnare un quadro il più possibile bilanciato seppur drammatico sulla guerra a Gaza, sulle apparenti contraddizioni di Pechino, sulle diverse macchine di disinformazione, con una condanna durissima ai politici israeliani, primo fra tutti Benjamin Netanyahu.

Lo studioso Tuvia Gering e il professore Enrico Fardella, Cabot University, Roma. Foto: Francesca Lancini
Dalla Guerra Fredda al 7 ottobre: le relazioni storiche tra Cina e Israele
In Italia il ruolo della Cina in Medio Oriente è quasi inesplorato. In Israele invece?
Altrove e in Israele non direi inesplorato. È vero che è stato poco studiato se si confronta con altre regioni del mondo. La stessa cosa si può dire dei rapporti Cina-Africa o Cina-America Latina. Molte persone valide hanno pubblicato libri e tesi di laurea a partire dalla fine degli anni ’70. Più di recente, la settimana scorsa, Zhang Chuchu della Fudan University ha pubblicato un nuovo libro sullo stesso tema. Però nell’ultimo decennio, soprattutto con il lancio della Belt and Road Initiative, le relazioni cinesi hanno guadagnato più attenzione. Aumentando le attività cinesi nella regione mediorientale, si è registrato un maggior numero di report accademici e giornalistici. Oggi è difficile stare al passo con la raffica di notizie. Sembra che ogni giorno ci sia un accordo da un miliardo di dollari, si inauguri una fabbrica, si apra un fondo per pannelli solari.
La Cina sta accelerando la sua presenza geopolitica in Medio Oriente?
Sì. Nel marzo 2023 ha mediato tra Arabia Saudita e Iran. Nel luglio scorso ha invitato le fazioni palestinesi e firmato la Dichiarazione di Pechino. La Cina cerca di parlare del suo ruolo in Medio Oriente in ogni forum internazionale, compreso quello di questo mese di maggio dei BRICS in Brasile. Vuole che tutti si accorgano di quanto il suo ruolo sia grande, soprattutto rispetto al passato. Se poi lo sia davvero è un’altra questione.
Quando ha iniziato la Cina ad avere rapporti con i Paesi del Medio Oriente e in particolare con Israele?
Israele era stata riconosciuta prima dalla Repubblica di Cina. E, alla fine della guerra civile tra nazionalisti e maoisti, vinta da questi ultimi, fu il primo Paese del Medio Oriente a riconoscere la Repubblica Popolare Cinese di Mao Zedong istituita nel 1949. Ma non venne ricambiata. All’apice del maoismo, soprattutto dopo la Conferenza di Bandung (nel 1955 rappresentanti africani e asiatici discussero in Indonesia il ruolo di un Terzo Mondo nella Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ndr.) cominciò a diffondersi un’idea di solidarietà tra Asia e Africa, compreso Nord Africa e Medio Oriente. La Cina cominciò a cooperare con gli arabi. Fu un passaggio molto rapido: dalla considerazione degli arabi come usurpatori monarchici e destabilizzatori regionali e il riconoscimento del sionismo come grande movimento, alla valutazione di Israele quale agente dell’impero occidentale, sostenuto persino dai revisionisti russi. Per assurdo, Israele è stato usato per attaccare sia l’Unione Sovietica sia gli Stati Uniti, i nemici ideologici della Cina maoista.
La “Cina voce del Sud Globale” non è una narrazione recente? Giusto?
Ricostruire il contesto storico è molto importante perché l’eredità della Guerra Fredda è ancora sentita nei circoli accademici e ufficiali cinesi. Essi sono composti da persone, un po’ come le controparti negli Stati Uniti, cresciute in quel periodo. Ne hanno studiato le ideologie e in parte ne conservano la mentalità.
Come si è arrivati nel 1992 alle relazioni ufficiali tra Iraele e Cina?
Le relazioni ufficiali tra Israele e Cina sono state stabilite nel 1992 in seguito a decenni di demonizzazione di Israele. Tornando brevemente al periodo della Guerra Fredda, si possono trovare quasi ogni giorno commenti negativi sul Quotidiano del Popolo, portavoce del Partito Comunista Cinese (PCC). Questa ostilità aperta è continuata anche dopo la morte di Mao, ma in modo piùmoderato perché dalla fine degli anni ’70, dopo l’invasione cinese del Vietnam (guerra sino-vietnamita 17 febbraio-16 marzo 1979, ndr.) con il tacito sostegno degli Stati Uniti, Israele ha iniziato ad armare l’Esercito Popolare di Liberazione e a fornire tecnologie al complesso militare industriale cinese. Questi legami militari hanno creato le basi per le relazioni diplomatiche. Allora avevamo anche una profonda partnership nei settori dei dispositivi medici e delle tecnologie agricole. I due governi hanno iniziato a promuovere molti legami non ufficiali e accademici, istituendo una società di facciata a Hong Kong che agiva come ambasciata de facto. Poi, dopo la conferenza di Madrid del 1991, dopo che Israele aveva stabilito relazioni diplomatiche con l’Egitto, molto tempo dopo gli accordi di Oslo e l’inizio del processo di pace, la riproposizione della soluzione dei due Stati, Israele divenne meno tossica per la Cina.
Affari e politica, i due binari del regime cinese
Cooperazione tecnologica e per l’innovazione hanno cementato le relazioni sino-israeliane negli anni Duemila?
La visita del Primo Ministro Netanyahu a Pechino nel 2013, è stata accompagnata da decisioni e delegazioni governative, gruppi speciali e organismi G2G (Government-to-Government agreements, ndr.). Nel 2014, abbiamo istituito un comitato congiunto sulla cooperazione per l’innovazione, un organo governativo che si riunisce ogni anno alternativamente a Gerusalemme e a Pechino. All’inizio erano nove, ora sono 14 i ministri dei due Paesi che si incontrano. Quindi non si tratta solo di innovazione, ma di un settore quasi trasversale. Nel 2017 abbiamo aggiornato la relazione bilaterale in un partenariato globale per l’innovazione, un tipo di rapporto simile a quello che la Cina ha con la Svizzera. Oggi si contano molti legami interpersonali, scambi accademici, un turismo significativo tra i due Paesi, cinque voli diretti. Israele aprirà cinque uffici di rappresentanza in Cina, compresa l’ambasciata.
Cina e Israele: amici nel commercio, ma nemici sul piano politico?
Ogni volta che si è verificato un conflitto tra Israele e i palestinesi, dal 1992 al 2021, o addirittura al 2023, si è assistito a un cambiamento totale di Pechino nei confronti di Israele, almeno nelle sedi internazionali, dove un approccio molto amichevole e gregario è diventato altamente critico. Quando si fanno affari, il regime cinese è cordialissimo con Israele. Quando si tratta di politica e ideologia, appoggia i palestinesi. I cinesi vedono che Israele è molto impopolare nel mondo. Ciò si collega anche all’eredità storica che ha portato la Cina a sostenere i palestinesi, indipendentemente dal terrorismo.
Come si è comportato il regime cinese dopo il 7 ottobre e perché?
Il regime cinese ha considerato l’attacco, il massacro di Hamas e la guerra che è seguita semplicemente un altro round del conflitto, che significa un’altra giravolta a 180 gradi contro Israele. In Cina si sono diffusi commenti antisemiti che però non hanno sorpreso gli osservatori israeliani: fanno parte delle regole del gioco. Israele e Cina sanno entrambe che le condanne di Pechino non significano molto, perché Israele è protetto dal veto degli Stati Uniti all’Onu. Con l’invasione israeliana di Gaza e le immagini che arrivano da lì, la sofferenza, la miseria, i cinesi credono che più il conflitto andrà avanti, più il mondo si rivolterà contro Israele. E su questo hanno molta ragione.
In una lectio all’Istituto Guarini della Cabot University di Roma, lei ha spiegato che a partire dal 7 ottobre 2023 l’antisemitismo ha raggiunto livelli mai visti in Cina, soprattutto sui social media. Quali fattori hanno favorito questa deriva e come può contrastarla Israele?
Difficile. Israele non è la Repubblica Ceca. Non siamo sostenuti dall’Unione Europea. Non siamo gli Stati Uniti. Non abbiamo le dimensioni dell’economia dell’Australia che esporta minerali critici in Cina e non abbiamo leader validi. O ne abbiamo pochissimi. L’economia israeliana dipende dalla Cina, come molte altre economie in tutto il mondo. La Cina è il nostro terzo partner commerciale e presto diventerà il secondo. Israele importa dalla Cina componenti fondamentali, come materie prime critiche per il settore medico-farmaceutico e altri minerali. La Cina è un mercato piuttosto grande per le esportazioni israeliane, soprattutto di prodotti chimici e semiconduttori.
La Cina si fa forte del suo ruolo di seconda economia planetaria?
A differenza di altri Paesi che criticano Israele, la Cina presenta alcune differenze che sono fondamentali: seconda potenza economica e membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Non solo. Nel mondo, uno su cinque internauti è cinese, oltre un miliardo di persone. In Cina internet e i media sono rigorosamente monitorati, guidati e censurati dal più sofisticato meccanismo ideologico e tecnologico che l’umanità abbia conosciuto. Un sistema che farebbe rabbrividire George Orwell e che è stato perfezionato negli ultimi decenni e ancor di più sotto il presidente Xi Jinping.
Il regime di Xi Jinping, segretario del PCC dal 2012 e presidente dal 2013, è più aggressivo rispetto ai precedenti. In che modo verso Israele?
Sotto Xi Jinping l’ideologia ha ripreso forza, mentre l’economia rallenta, la competizione tra grandi potenze alita sul collo di molti cinesi e rende loro la vita un po’ più difficile. È cambiato lo spirito del tempo. Si è cominciato a demonizzare il capitale. Essere ricchi non è più glorioso come diceva Deng Xiao Ping. L’Occidente non è più una fonte di emulazione, ma di inimicizia. Gli Stati Uniti sono il grande nemico. E Israele, ancora una volta, come durante la Guerra Fredda, sarebbe un agente dell’imperialismo occidentale. Gli ebrei sarebbero agenti del capitale. Sono loro, si legge in alcuni dei peggiori commenti su social e media cinesi, a guidare la politica mediatica dell’Occidente e soprattutto degli Stati Uniti, e la politica estera contro la Cina in una guerra strategica. Mettendo insieme tutti questi elementi, soprattutto nei primi mesi dopo il 7 ottobre, si è assistito a uno tsunami, termine usato dall’ambasciatore israeliano in Cina e da altri, di antisemitismo, di retorica anti-israeliana, pro-Hamas e pro-Iran, promossa e amplificata da media di Stato, funzionari, accademici di alto profilo e consulenti politici in Cina, e anche da reti di disinformazione guidate dal governo cinese e in particolare dal Ministero della Pubblica Sicurezza.
Lei ha riportato una metafora usata da studiosi cinesi: “Israele è stato usato come un bastone per colpire gli americani”. Dopo un anno e mezzo di guerra israelo-palestinese è ancora così?
Viene ancora usato, ma è meno efficace. La Cina ha visto i successi tattici e persino strategici di Israele sul campo di battaglia, a partire dall’operazione cercapersone contro Hezbollah, il respingimento dei razzi iraniani o il crollo del regime siriano di Assad, che era sostenuto dalla Cina. Lo scorso ottobre si è cominciata a notare una certa moderazione nelle reazioni e nei commenti dei funzionari cinesi, tra cui il ministro degli esteri Wang Yi che ha parlato per la prima volta in un anno con il suo omologo israeliano.
A novembre è stato nominato un nuovo ambasciatore cinese, Xiao Junzheng, che nei giorni scorsi per la prima volta ha ha rotto il silenzio sul massacro di Hamas e indossato il nastro giallo per i 58 ostaggi ancora detenuti a Gaza.
È un uomo intelligente, con un background negli affari mediorientali e un dottorato di ricerca. Ha lavorato in quattro Paesi mediorientali, quindi conosce piuttosto bene la regione, e sicuramente più del suo predecessore che ora è inviato cinese presso l’UE. Hanno anche fatto ripartire i voli e diminuito il livello di minaccia per i turisti che desiderano venire in Israele. I commenti antisemiti e anti-Israele online non sono più tanto forti, anche se quasi ogni giorno ne trovo ancora di orribili sui media cinesi.
Cina, arabi e palestinesi: tra ideologia e disinformazione
Qual è il rapporto tra il regime cinese, Hamas e gli altri gruppi islamisti e terroristici?
La Cina non riconosce ufficialmente questi gruppi come organizzazioni terroristiche. Io e lei ne parliamo, sappiamo riconoscere il terrore quando lo vediamo, è abbastanza chiaro, e anche per la Cina i due pesi e le due misure sono molto chiari, ma non troverà molte voci cinesi critiche. L’ambiente accademico cinese è molto politicizzato.
Riguardo il 7 ottobre, la Cina ha legittimato Hamas presso la Corte internazionale di giustizia. Il consulente legale del Ministero degli Esteri ha detto che ciò che i palestinesi hanno fatto il 7 ottobre e dopo è legittimo secondo il diritto internazionale. La Cina ha una forma di resistenza contro l’oppressione e la colonizzazione straniera e mantiene legami con questi gruppi terroristici, per lo più dietro le quinte. Negli ultimi 15 anni un giornalista dell’agenzia cinese Xinhua basato a Gaza si è scattato selfie nei tunnel di Hamas. Oppure Ma Xiaolin, corrispondente della Xinhua a Gaza per tre anni, con un legame profondo con Hamas, di recente ha visitato ha incontrato il portavoce militare degli Houthi, Yahya Saree, e lui dice anche il leader degli Houthi Abdul Malik al-Houti.
L’ideologia del regime cinese è che tutte queste organizzazioni, pur fondamentaliste islamiche, non si possono battere, che fanno parte del panorama politico del loro Paese. Per Pechino bisogna trattare con Hamas come si è trattato con l’OLP. Non so se ci creda davvero, ma è sufficiente sostenerlo per costringere Israele a riconoscere Hamas. C’era questa l’idea alla base del vertice tenutosi a Pechino nel luglio dello scorso anno.
In Italia vari accademici e giornalisti sostengono che Hamas prima era un movimento politico e poi è diventato terrorista, sebbene abbia sempre compiuto attacchi contro Israele e crimini contro la stessa popolazione palestinese. Alcuni lo considerano resistenza. Come si combatte questa disinformazione?
Contro chi è gestito e coordinato da attori statali non si può fare molto, perché sono pagati per seguire un’agenda precisa. C’è un intero sistema di disinformazione messo in moto dal 7 ottobre, con alle spalle un secolo di antisemitismo, antisionismo, delegittimazione di Israele e del popolo ebraico. A causa di questo ambiente informativo è molto difficile avere altre opinioni dal campo di guerra. Non si può negare che ci sia una grande sofferenza a Gaza, ma bisogna ricordare che ci sono interi sistemi di propaganda guidati da entità statali, mi riferisco in particolare all’Iran e al Qatar, ma anche alla Russia e alla Cina e persino alla Corea del Nord. Essi sono rafforzati dalle voci anti-Israele in Occidente, alcune con un antisemitismo latente, altre con un antisemitismo moderno e altre ancora con una retorica anti-Israele. E anche da persone genuinamente solidali con la causa palestinese, che riconoscono Israele e il sionismo, ma cercano comunque di prendere una posizione.
Come valuta le Nazioni Unite?
Anche l’ONU è un cittadino medio. Risulta difficile credere che le Nazioni Unite siano corrotte fino al midollo con persone aiutate e sostenute da regimi autoritari. Un rapporto del Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi, pubblicato la scorsa settimana , analizza quanto la Cina abbia influenzato le Nazioni Unite e come i giudici chiave della Corte penale internazionale e della Corte internazionale di giustizia siano corrotti e parziali nei confronti di Israele.
Di cosa non si parla abbastanza?
Degli ostaggi ancora detenuti, del terrore del 7 ottobre 2023 e di molto tempo prima, del deragliamento del processo di pace, dei palestinesi che si assumono la responsabilità per le proprie azioni, delle divisioni fra i palestinesi stessi, di come Hamas è stato autoritario, dispotico e omicida contro i palestinesi che vivono a Gaza. Queste persone non sono combattenti per la libertà, ma le forze più oscure e arretrate che si possano immaginare. Sono omofobe e scollegate dalla realtà, mentre a Tel Aviv c’è una delle società più aperte per le comunità LGBTQ+.
Ma c’è qualcosa che possiamo consigliare ai giornalisti e alla gente comune per informarsi meglio?
Diversificate le fonti di informazione. Dovete venire qui, se potete, e ascoltare anche le voci israeliane, per quanto sia difficile per voi legittimare Israele, perché al momento lo considerate un Paese orribile, ‘colpevole di apartheid e genocidio’. Vedrete che la realtà non è in bianco e nero.
Le responsabilità del governo Netanyahu
È difficile raccontare questa guerra in modo indipendente, tra pericoli e limitazioni da ogni parte, e trovare un’informazione bilanciata. Quali sono le responsabilità del governo israeliano?
Il governo israeliano ha fallito miseramente su più livelli, ma soprattutto su quello che chiamiamo hasbara, ovvero la comunicazione pubblica, non riuscendo a spiegare la posizione di Israele e perché le sue guerre giustificano ciò contro cui stiamo combattendo. E quando si chiede a uno studente medio, in Cina o in Occidente, cosa è successo il 7 ottobre, spesso non lo sa. Non sa degli stupri di donne israeliane.
Lei è critico nei confronti del premier Benjamin Netanyahu per altri motivi oltre all’aspetto comunicativo. Quali?
Penso che il governo Netanyahu sia stato tossico per la società israeliana, per il modo in cui il partito Likud ha governato Israele e per le sue tendenze antidemocratiche. In particolare ha minato il forte movimento liberale che ha protestato contro il governo Netanyahu settimana dopo settimana, molto prima dell’inizio della guerra, contestando la riforma del sistema giudiziario. Un altro problema è quella che qui chiamiamo la ‘macchina del veleno’, che aiuta a diffondere false informazioni attraverso mezzi coordinati all’interno della società israeliana. Abbiamo appena parlato dell’influenza straniera e delle campagne coordinate contro Israele, ma all’interno della società israeliana ci sono campagne lanciate contro gli israeliani stessi. A prescindere dai palestinesi e dal conflitto, questa macchina tossica ha messo a rischio la coesione e la sicurezza nazionale.
Nemici interni a Israele. Ci spiega meglio?
Alcuni hanno politicizzato la religione e legittimato le voci razziste e illiberali. Per esempio Itama Ben Gvir, leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit e ministro della Sicurezza Nazionale, è un aperto sostenitore del terrorismo ebraico. Per me è un essere umano orribile, razzista e illiberale, uno dei pochi membri del gabinetto che non ha un solo osso democratico in corpo. So di sembrare duro nelle mie osservazioni, ma lo dico con profondo dolore. Credo di non essere l’unico disilluso dalla politica israeliana sotto Netanyahu. E penso che anche l’opposizione, guidata da Yar Lapid, abbia avuto una parte in questo, nell’aggiungere veleno al dibattito, l’altra faccia dello specchio. È passato molto tempo da quando, guardando i funzionari pubblici israeliani eletti dalla maggioranza, ne sono stato orgoglioso. È vergognoso avere questo tipo di persone, 120 rappresentanti, la maggior parte dei quali aborro con ogni fibra del mio essere.
Ci sta dicendo che si può essere contro i politici israeliani ma a favore della guerra ad Hamas?
Anche quando li critico hanno il mio sostegno per questa guerra, perché si tratta di qualcosa di diverso. Si tratta di qualcosa di più grande delle lotte politiche o del modo in cui hanno eroso la società israeliana e minato la nostra coesione dall’interno. Perché stiamo affrontando minacce esistenziali. Siamo di fronte a nemici che cercano di annientare lo Stato ebraico. Quindi questo è il governo che abbiamo e dobbiamo sostenerlo. E se non fosse Netanyahu, se fosse qualcun altro, ci sarebbe comunque un sostegno popolare alla guerra. Forse a livello tattico si prenderebbero decisioni diverse. Comunque, c’è un equivoco tra gli osservatori stranieri, specialmente quelli che simpatizzano per Israele: attribuiscono tutta la guerra e i suoi problemi a Netanyahu, senza capire che se si rimuove Netanyahu, se scompare domani mattina dalla scena, ci sarà comunque una guerra perché le minacce non si saranno dissolte.
Qual è la percezione generale della guerra da parte degli israeliani?
Viviamo in un trauma costante. Israele è un Paese piccolo. Tutti conosciamo qualcuno che è morto brutalmente durante il massacro del 7 ottobre. E abbiamo un familiare o un conoscente che è stato ostaggio o lo è ancora a Gaza. E questa è un’altra cosa che la gente non capisce. Non siamo lontani da Hamas. Non siamo in Afghanistan. Non è il Vietnam. È proprio dall’altra parte del confine. Tra l’altro, le persone più colpite lungo la frontiera erano i più accaniti sostenitori della pace, quelli che la sinistra radicale definirebbe tali, che da Gaza portavano i malati negli ospedali israeliani. Sono stati loro a essere rapiti e violentati per primi. I critici di Israele dovrebbero guardare a queste comunità che sono associate alla coalizione anti-Netanyahu e ai gruppi più a sinistra, e chiedere loro cosa pensano della guerra. Pur comprendendo la sofferenza dei palestinesi, qualcosa che qualsiasi Stato non può tollerare, non si può tornare alla normalità e dire: ‘Ok, torniamo alla soluzione dei due Stati’.
La Cina sostiene gli Houti?
Prima ci diceva di aver sentito il razzo contro l’aeroporto di Tel Aviv. Possiamo dire che la Cina ha sostenuto i ribelli Houthi dello Yemen?
Sì, la Cina sta sostenendo gli Houti, ma è complicato. Non lo dice apertamente e ha condannato le azioni degli Houthi contro la navigazione marittima globale. Tuttavia, i media di Stato e il partito cinese si sono adoperati in modo coordinato per condannare la coalizione statunitense che sta combattendo gli Houthi, affermando che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU non consente loro di attaccare lo Yemen perché è una violazione della sovranità yemenita. Ma la retorica non importa quanto l’azione. Esistono ampie prove di come la Cina abbia, come minimo, facilitato l’aiuto agli Houthi per continuare a operare. Pare che questi ultimi abbiano accettato di non attaccare le navi cinesi e russe dopo aver incontrato funzionari cinesi. Il Dipartimento di Stato americano ha accusato un’azienda cinese, la Chang Guang Satellite Technology, di sostenere direttamente gli attacchi contro gli Stati Uniti.
In effetti, negli ultimi mesi le navi battenti bandiera cinese non sono state colpite e hanno aumentato notevolmente il tonnellaggio.
Si è anche visto un numero maggiore di cargo seguire le navi cinesi o aggiungere la bandiera cinese probabilmente per non essere prese di mira. Inoltre, si trovano diversi rapporti sulla Cina che avrebbe armato gli Houthi con componenti militari e dual use a un prezzo che arriva fino a 50 milioni di dollari. Si vedono più entità con sede nella Repubblica Popolare Cinese e a Hong Kong che facilitano il commercio illecito per offrire tecnologie militari e dual use agli Houthi. Ciò include il riciclaggio di denaro attraverso le banche.
Quali sono i rapporti della Cina con l’Iran che sostiene gli Houti?
La Cina ha indirettamente sostenuto gli Houthi fornendo un’ancora di salvezza economica all’Iran. Il 90% delle esportazioni di petrolio iraniano sottoposte a sanzioni è destinato alla Cina; secondo stime recenti, adesso la percentuale è un po’ più bassa, ma sempre alta. Secondo Reuters, circa il 50% dei proventi del 90% va direttamente all’IRGC (Corpo delle guardie della rivoluzione islamica, ndr.) che usa queste decine di miliardi di dollari per finanziare le sue operazioni in tutto il Medio Oriente e oltre, fino al Sud-Est asiatico e all’America Latina. Questo denaro viene utilizzato per costruire i missili, componenti e UAV (droni, ndr.) che vengono utilizzati dagli Houthi e da altri proxy iraniani.
Cina “ancora di salvezza” del regime iraniano
La Cina sta tenendo in vita il regime iraniano?
Sì, credo che si possa affermare che la Cina sia stata la più importante ancora di salvezza economica del regime iraniano, sostenendolo nonostante gli anni di sanzioni, isolamento e massima pressione. La maggior parte dell’energia iraniana è andata in Cina. Si è arrivati a un massimo di quasi 2 milioni di barili al giorno. Durante l’amministrazione Biden, l’Iran avrebbe guadagnato circa 50 miliardi di dollari all’anno. Quindi circa 200 miliardi di dollari in quattro anni, perché le sanzioni non sono state applicate severamente. E se metà delle entrate va alle guardie rivoluzionarie, significa che questa cifra finanzia la destabilizzazione iraniana della regione. Un’armata fantasma ha effettuato questi trasferimenti occulti di petrolio da nave a nave.
Bloomberg ha pubblicato una relazione dettagliata su questa vicenda: circa tre o quattrocento navi effettuano questo tipo di trasbordo e poi si dirigono dall’Iran alle cosiddette raffinerie teapot sulla costa cinese in città come Yanjin e Shanghai. È molto difficile sanzionare queste entità perché sono raffinerie semi-private o apparentemente private che operano al di fuori del sistema monetario del dollaro e del sistema finanziario globale. A loro conviene acquistare il petrolio iraniano sanzionato e a basso costo. C’è un’intera economia che lavora parallelamente a quella globale e alle sanzioni americane.
La Cina e l’Iran hanno cercato di creare un sistema economico che resistesse alle sanzioni statunitensi e occidentali, per esempio attraverso il baratto?
Soprattutto con Donald Trump, però, gli stati Uniti vogliono applicare sanzioni secondarie contro chiunque aiuti l’Iran. Da oltre un decennio Iran e Cina utilizzano il baratto per aggirare le sanzioni: Teheran fornisce petrolio a Pechino che paga in beni, servizi, infrastrutture. In Iran le aziende statali cinesi stanno costruendo complessi abitativi, hanno ampliato la metropolitana della capitale e stanziato 2,7 miliardi di euro per la riqualificazione dell’aeroporto Imam Khomeini. Tuttavia, dal 2018 al 2022 gli investimenti effettivi della Cina in Iran ammontano a 618 milioni di dollari, una cifra minore rispetto agli investimenti cinesi nei Paesi dell’Europa orientale, in Arabia Saudita e persino in Israele, che nell’ultimo decennio si sono avvicinati a 14 miliardi di dollari. Ciò ha generato un grande malcontento in Iran. La Cina è molto brava nella retorica, ma di fatto sta approfittando delle sanzioni per comprare petrolio a prezzi scontati.
L’incognita Trump
La politica di Trump appare imprevedibile e contraddittoria: è veramente “anti-Cina” o come sostiene Anne Applebaum ci sarebbe una sorta di patto non manifesto fra il presidente Usa e gli autocrati?
Credo che la risposta sia nella sua domanda. Trump è imprevedibile e una grande incognita. Per quanto riguarda l’argomentazione di Anne Applebaum, penso sia plausibile, ma non ho prove a riguardo. Sono, però, d’accordo con lo spirito di questa argomentazione, secondo cui ci sono molte tendenze illiberali e autoritarie all’interno dell’ambiente trumpiano e del movimento MAGA più duro. E lo vediamo provenire dall’alto, dallo stesso Trump quando dice che potrebbe o non potrebbe rispettare la Costituzione. Questo è solo un esempio, ma ci sono un’infinità di altre argomentazioni su Trump, sui suoi accoliti e sul modo in cui hanno minato le democrazie, non solo negli Stati Uniti, ma anche nei Paesi partner, come la Germania, ad esempio, o il Canada, a causa del sostegno ai conservatori. Non è improbabile che vengano firmati accordi a porte chiuse. Mi sembra che Stati Uniti e Cina stiano imparando l’uno dall’altra gli aspetti peggiori. Se la Cina è una scatola nera e ancora di più sotto Xi Jinping, gli Stati Uniti stano diventando una scatola nera a meno che non inseriscano un giornalista nelle loro chat!
Quale soluzione per il conflitto a Gaza e la tragica situazione umanitaria?
Sulla guerra a Gaza, dalla quale arrivano immagini terribili. È d’accordo con un cessate il fuoco o quale soluzione considera più opportuna? Chi ha lottato per la pace è ormai silenziato?
Tenga presente che la mia ricerca si concentra sulla Cina, ma posso condividere la mia prospettiva personale di israeliano. Una soluzione a lungo termine al conflitto di Gaza dipende da due risultati non negoziabili: il rilascio immediato di tutti gli ostaggi e il completo disarmo e allontanamento di Hamas dal potere. Senza queste condizioni, qualsiasi cessate il fuoco sarebbe solo una pausa temporanea. Hamas si riorganizzerebbe, si riarmerebbe e perpetuerebbe il ciclo di violenza in un numero di anni imprecisato.
Che cosa ci può dire sulla malnutrizione e sulla denutrizione dei bambini di Gaza?
I media israeliani e gli osservatori internazionali di stanza nella Striscia di Gaza hanno riferito in questi giorni della terribile situazione umanitaria in cui versa, che purtroppo è molto vera e piuttosto allarmante. Per tutta la durata della guerra, Hamas ha sistematicamente sfruttato gli aiuti umanitari a Gaza per consolidare il proprio dominio, dirottando i rifornimenti destinati ai civili verso i propri operativi, mentre una rete di intermediari e broker ha tratto profitto dalla rivendita di questi beni a prezzi gonfiati, lasciando i civili palestinesi privi di risorse. Hamas uccide, picchia e tortura chiunque si metta sulla sua strada, come mostrano i video che ogni giorno arrivano da Gaza. Si parla di un nuovo piano di Trump per portare aiuti umanitari a Gaza aggirando Hamas, che è stato approvato dal Ministro della Difesa Sa’ar.
Tuttavia, la mia sensazione è che la maggior parte degli israeliani sia più preoccupata per la situazione dei 58 ostaggi ancora trattenuti da Hamas a Gaza. Sono stati detenuti in condizioni disumane, sono gravemente malnutriti e torturati quotidianamente, e gli è stato negato l’accesso a visite di controllo da parte del CICR. La mancanza di accesso, i video settimanali di terrore psicologico condivisi online e l’assenza di indignazione internazionale per questo continuo crimine contro l’umanità hanno alimentato la rabbia dell’opinione pubblica israeliana e indurito le posizioni del governo. ‘Perché dovremmo preoccuparci del benessere delle popolazioni nemiche quando le nostre muoiono di fame nei tunnel?’.
Un ritornello comune. Il problema è che c’è poca trasparenza sulla mediazione con Hamas per trovare un accordo sugli ostaggi e porre fine ai combattimenti, e la fiducia in Netanyahu sta diminuendo. Recenti sondaggi mostrano che circa il 70% degli israeliani è favorevole alla fine della guerra in cambio degli ostaggi, ma è più facile a dirsi che a farsi. Cosa succederà con Hamas dopo il cessate il fuoco? Che ne sarà delle infrastrutture terroristiche rimaste a Gaza e in Cisgiordania? Che ne sarà dell’Iran che alimenta il terrorismo in Israele e dintorni? In che modo il mutevole panorama politico israeliano influenzerebbe tali decisioni? Più domande che risposte.







