Intervista al leader non violento Ayed Morrar, che ha guidato la lotta contro il muro fra Israele e Cisgiordania
Budrus, maggio 2011 – Al telefono la sua voce è sottile, forse stanca, mentre fra Palestina e Israele tornano gravi tensioni. Razzi, bombe, attentati. Un attivista italiano, Vittorio Arrigoni, ucciso dalle frange palestinesi più estremiste. Nuove violenze da quando la guerra devastò Gaza un anno e mezzo fa. Le parole di Ayed Morrar, uno dei maggiori esponenti palestinesi della nonviolenza, parlano di “coraggio, sforzo, sentire comune”.
C’è chi per questo lo paragona al Mahatma Gandhi, ma lui è palestinese, musulmano e, soprattutto, troppo umile per non provare imbarazzo davanti a un gigante della storia. Resta il fatto che è il fondatore del primo movimento non violento in Cisgiordania, capace di far dialogare tutte le fazioni in lotta, palestinesi e israeliane. Con l’obiettivo di resistere alla costruzione del muro (iniziata nel 2002), ha accettato l’aiuto dei pacifisti ebrei, finora visti con una certa diffidenza dagli arabi oltre la Green Line. Una lotta pacifica tanto straordinaria da essere raccontata nel documentario “Budrus”, che ha incantato tutto il mondo ed è stato riproposto in Italia durante il festival Middle East Now di Firenze.
Nel 2003 Ayed Morrar, un esile quarantenne nato nel 1962, convince i compaesani di Budrus, un villaggio agricolo di 1500 persone, a fermare ruspe e carri armati invadendo le zone dove dovrebbe passare la barriera di separazione. Gli anziani non possono più tollerare la vista dei tronchi divelti. Lo spettacolo è così desolante da spingere le donne (guidate dalla figlia adolescente di Morrar) a gridare verso una soldatessa: “Se sei donna lascia il fucile e vieni da noi”. La risposta dell’esercito israeliano è durissima: da manganelli, granate e proiettili di gomma si passa a pallottole-altezza-uomo. Ma i contadini non si arrendono.
“Ho annaffiato questi ulivi per cinquant’anni e ora vogliono sradicarli. Bene, allora dovranno sradicare anche me”, dice una madre disperata. Un palestinese muore, altri 300 manifestanti rimangono feriti. Trentasei persone sono arrestate, tra cui un pacifista israeliano. E’ guerra, almeno fino alla scena madre di questa concitata vicenda: i bambini si arrampicano sulla barricata e a mani nude rompono il filo spinato.
Dopo 55 marce e presidi, le richieste di Budrus vengono accolte: il muro sarà costruito ma lungo la Green Line e senza toccare il villaggio, il 95% degli ulivi sono salvi e anche il cimitero. Adesso che quasi tutto il mondo arabo è in rivolta, con le esplosione delle cosiddette “primavere arabe”, Ayed Morrar continua a insegnare la non violenza. In questa intervista esclusiva a east spiega: “Mi auguro che se avverrà una terza Intifada, sia pacifica. La non violenza è la cosa che conviene di più ai palestinesi. Dobbiamo praticarla non perché siamo migliori degli altri, ma perché siamo persone normali”.
La stampa internazionale non parla più del muro di separazione. A che punto è la sua costruzione?
Che la gente se lo ricordi oppure no, questo problema continua a esistere, la sofferenza continua a esistere. La barriera dovrebbe aver raggiunto i 400 chilometri ed è nelle ultime fasi della sua costruzione. Vogliono che divenga realtà sul nostro territorio per uccidere il nostro sogno di indipendenza e libertà. Non lo accetteremo mai e continueremo a lottare.
Quali sono i danni del muro in Palestina?
Il muro cerca di tagliarci i viveri, di isolarci dalle nostre fonti di vita, dalla nostra terra, dalle nostre università e dai nostri ospedali. All’intera nazione ha ucciso il sogno di costruire uno Stato indipendente e unito, creando molti ghetti.
Esistono dati specifici?
Ci sono circa 10mila palestinesi completamente isolati dal muro. Non hanno alcun contatto con gli israeliani né una normale relazione con i Territori Palestinesi. Milioni di alberi sono stati separati o sradicati. Migliaia di dunum (metri quadri, ndr.) di terreni sono stati confiscati o distrutti, e centinaia di acquiferi sottratti.
Perché dopo una militanza in Fatah, sette anni di prigione e altri tre in fuga, ha scelto di difendere Budrus con la non violenza?
Sebbene i palestinesi abbiano il diritto di lottare in ogni modo secondo la legittimità internazionale e il rispetto dei diritti umani, scelgo la via della non violenza per difendere la nostra immagine di vittime. Lo ribadisco: siamo vittime reali di un’Occupazione criminale. Vogliamo differenziarci sia dal terrorismo internazionale che dalla (legale) lotta nazionale. Abbiamo bisogno di riunire le persone intorno a noi affinché ci capiscano e ci aiutino. E dobbiamo fare in modo che ognuno nel mondo possa unirsi alla nostra battaglia. Siamo chiamati ad avvicinare tutte le nostre generazioni perché la lotta non è solo un diritto, ma un dovere.
Dove ha conosciuto la non violenza?
Già in Fatah mi ero impegnato nella resistenza civile e nella lotta non violenta. Fatah stessa è un’organizzazione ampia, con diverse opinioni al suo interno.
Lei ha dichiarato: “Non abbiamo scelto la non violenza perché siamo le persone più educate del mondo o perché siamo gli unici a rinunciare alla violenza. L’abbiamo scelta perché è ciò che più conviene ai palestinesi”.
Con la lotta non violenta possiamo convincere più facilmente gli altri che siamo persone normali con diritti normali di libertà e pace effettiva. La non violenza costringe l’esercito israeliano a usare un grande numero di soldati per fermarci, ma se combattessimo in modo violento i militari sarebbero autorizzati a usare tutte le armi in loro potere. Dal momento che loro hanno rifornimenti bellici infiniti ma un numero limitato di persone, la non violenza ci permette di esercitare una forte pressione sull’esercito. Attraverso la non violenza possiamo vincere la battaglia morale.
Queste parole rievocano Gandhi, al quale lei è stato paragonato.
Ho cercato di apprendere molto dall’esempio di Gandhi. Lui, però, è divenuto un simbolo e nessuno potrà mai eguagliarlo.
Nel documentario “Budrus” lei dice: “Abbiamo dato ai nostri ulivi i nomi delle nostre madri”. Cosa rappresentano per voi palestinesi gli alberi e la terra?
La nostra cultura è fortemente legata agli ulivi. Attualmente non possiamo dipendere solo da questi per crescere i nostri figli, anche se molte famiglie continuano a farlo. Però, fino a pochi anni fa, durante gli anni Sessanta e Settanta, tutti i contadini palestinesi dipendevano completamente dall’agricoltura. Pensiamo che gli ulivi siano alberi sacri e che puoi creare una famiglia solo grazie a burro, farina e olio d’oliva. Il numero di ulivi che un palestinese possiede continua a indicare il suo status sociale.
Su cos’altro si basa la vostra economia?
Adesso i palestinesi svolgono anche altri impieghi nella Forza di Sicurezza Palestinese, presso l’Autorità Palestinese e in Israele come operai con permesso d’ingresso, anche se non esiste un lasciapassare permanente e possono fermarli quando vogliono.
Quale impronta ha lasciato in Cisgiordania l’approccio non violento?
L’esperienza di Budrus è stata ripetuta in molti villaggi palestinesi, dove la violenza ha raggiunto il livello minimo dal 2003. Tra questi, oltre a Budrus, continuano a resistere contro il muro Ni’lin, Bili’in, Al-Masara, Al-Walaje, Beit Oula, Jayyous. Il mio Comitato Popolare continua a opporsi alla barriera di separazione, ma fra i villaggi c’è frammentazione. Alcuni agiscono contro il muro, altri contro le colonie, altri ancora contro gli sbarramenti stradali, le demolizioni e i checkpoint. Mi preoccupa, però, che fatti recenti mostrino una recrudescenza da ambo le parti. Finché esisterà l’Occupazione non si raggiungerà la pace.
Qual è la sua soluzione al conflitto israelo-palestinese?
La mia personale opinione è che i palestinesi abbiano uguali diritti degli israeliani. Se gli israeliani hanno bisogno di uno Stato indipendente, anche noi palestinesi ne abbiamo bisogno. Se loro vogliono vivere in uno Stato democratico, noi non ci opponiamo. La cosa che sembra più facile da ottenere per entrambi sono due Stati indipendenti, i politici di tutte e due le parti credono in questa soluzione.
Qual è il segreto per riuscire a dialogare contemporaneamente con voci diverse, come i pacifisti e i soldati israeliani, Hamas e Fatah?
Se non puoi riunirti in un piccolo cerchio, allora il cerchio lo devi allargare per trovare un sentire comune e ignorare le differenze. Questo si può fare se l’obiettivo di tutti è la ricerca di libertà, giustizia e pace. Democrazia significa che devi capire l’altro, non si riduce al fatto che la maggioranza governa la minoranza. L’incomprensione crea paura e la paura crea odio. Puoi non trovare dei seguaci, ma dei compagni. Il leader non deve ignorare alcuna componente della società, anche se questa ha un potere limitato.
Come spiega la non violenza ai politici e ai capi dei villaggi palestinesi?
Ogni palestinese concorda che la normale reazione all’occupazione sia resistere, ma è importante chiedersi come resistere. Se tutte le direzioni portano alla libertà, dobbiamo scegliere il sentiero più corto e facile. Desideriamo costruire un futuro indipendente e democratico, e non vogliamo una dittatura. Se tentiamo di raggiungere la libertà, dobbiamo cercare un buon vicino, non un nemico. Entrambe le parti hanno bisogno l’una dell’altra per costruire un futuro.
Nella sua campagna non violenta quali ostacoli ha incontrato fra i palestinesi?
Alcuni problemi dipendono dalla nostra educazione e altri dal nostro sistema politico. Ma se conosci nei dettagli la tua comunità, puoi raggirare gli ostacoli. La lotta non violenta richiede più incoraggiamento, sforzo e fiducia di quella violenta. Alcuni palestinesi non sono pronti perché non possiedono ancora questi strumenti. Per i politici, invece, è difficile condurre una lotta popolare mentre siedono nei loro comodi uffici. Preferiscono il silenzio o la lotta armata, perché queste due opzioni consentono loro di rimanere dietro una scrivania sborsando dei soldi quando li hanno.
Riesce ad avere qualche contatto con gli abitanti della Striscia di Gaza?
Non abbiamo veri legami, ma di tanto in tanto sentiamo al telefono chi sta resistendo nella buffer zone (zona cuscinetto militare e off limits che si estende lungo il confine settentrionale e orientale della Striscia con Israele, ndr.) intorno a Gaza. Di recente questa resistenza si è molto indebolita a causa della violentissima risposta israeliana e dell’incomprensione del regime di Hamas.
Arrivano varie notizie sulla radicalizzazione di Hamas, come quelle sull’imposizione di costumi islamici più conservatori per le donne. Questa politica è contraria al suo pensiero pacifista?
La chiusura di Gaza ha generato più radicalismo (vedi rapporto dell’International Crisis Group “Radical Islam in Gaza”, dove si analizzano i movimenti ‘salafiti-jihadisti’, che sono più estremisti di Hamas, responsabili di diversi lanci di razzi contro Israele e dell’uccisione di Arrigoni, ndr.). In quanto palestinesi, continueremo a lottare per riunire le nostre due fazioni politiche (Fatah in Cisgiordania e Hamas nella Striscia, ndr.). La Striscia di Gaza, però, deve essere aperta per mettere in contatto i suoi abitanti con gente di tutto il mondo e con una cultura internazionale più libera.
Che tipo di cultura, per esempio?
Quella in cui bisogna capire gli altri e fare in modo che gli altri ti capiscano. Quando ero in carcere nel 1989, dopo 22 anni dall’Occupazione israeliana, Hamas non esisteva. C’erano solo pochi membri dei Fratelli Musulmani, che però non avevano un ruolo nella lotta palestinese. Fino a quando l’Occupazione esisterà, incontreremo elementi più estremisti di Hamas. Solo intensificando la battaglia pacifista ridurremo il livello di violenza e non daremo una ragione agli estremisti di rafforzare le loro opinioni. Ricordiamo che l’israeliano più estremista è il ministro degli Esteri (Avigdor Lieberman, ndr.) e che quindi entrambe le parti dovrebbero preoccuparsi dei rispettivi radicalismi.
La sua giovane figlia, Iltezam, ha convinto le donne di Budrus a resistere contro il muro. Perché la partecipazione femminile è così importante?
Abbiamo bisogno di una vasta partecipazione che includa chiunque. Se vogliamo raggiungere il 100 per cento dei nostri obiettivi, dobbiamo usare il 100 per cento del nostro potere. Le donne ne rappresentano la metà e ed è sciocco ignorarlo.
Movimenti di giovani in gran parte del mondo arabo si stanno ribellando ai loro regimi. Come si guarda a queste rivolte dalla Palestina?
Alla fine gli arabi del Medio Oriente troveranno la loro strada e inizieranno a credere nella loro capacità di cambiare le cose e di giocare un ruolo nel controllo delle loro vite. Questo ci incoraggerà ad andare verso un Medio Oriente senza oppressione, dittatura e occupazione.
Negli ultimi mesi c’è stato un nuovo attentato a Gerusalemme, il primo dal 2008. Diversi razzi sono partiti dalla Striscia di Gaza, che i raid israeliani hanno bombardato più volte causando vittime civili. Israele, finora, aveva detto di aver registrato meno attacchi dalla costruzione del muro. La barriera di separazione è veramente efficace contro il terrorismo?
Si è aperto un dibattito sul fatto che il muro non possa bloccare i razzi. In più, secondo gli stessi rapporti israeliani, molti degli attentatori suicidi sono passati dai checkpoint. Ciò significa che il muro non serve a nulla in termini di sicurezza. Al contrario, aumenta i nemici, diffonde odio e incomprensioni.
L’International Crisis Group teme un nuovo conflitto. Al tempo stesso, sulla scia delle rivolte arabe, si va verso una terza Intifada?
Israele vuole impedire un nuovo movimento popolare (che si prevede possa avvenire in Palestina contro l’Occupazione) e intende trovare una ragione per cominciare questa guerra. Servirà uno sforzo generale per far sì che le rivolte non diventino violente. Nessuno può rimanere in silenzio mentre l’Occupazione continua, le colonie si espandono e l’oppressione dilaga.
A Gaza, intanto, si è manifestato contro il regime di Hamas per chiedere che torni a dialogare con Fatah. Forse anche Hamas cerca un nuovo conflitto per spostare l’attenzione dai reclami popolari?
Hamas non tollera nulla che disturbi il suo potere a Gaza per ragioni sia politiche che ideologiche. Inoltre vuole provare che il suo regime islamico è adatto a governare i musulmani ovunque e in ogni momento. Non vuole combattere contro Israele, perché sa che una guerra minaccerebbe la sua struttura e favorirebbe i rivali interni. Cercherà, però, di tenere alto il livello del confronto con Israele per essere rieletto e protrarre il controllo sulla Striscia.
Tra questi nemici interni c’è il gruppo salafita che ha ucciso Vittorio Arrigoni, attivista dell’International Solidarity Movement (ISM).
E’ vergognoso quanto siano ubriachi di terrore e odio coloro che l’hanno ucciso. Consideriamo Vittorio uno dei nostri martiri che hanno lottato per la libertà dall’Occupazione e dal terrorismo, due aspetti della stessa medaglia. Anche se i suoi assassini portano un nome palestinese, per noi hanno un cuore e una mente straniera. Oggi e domani (15-16 aprile, ndr.) i Comitati Popolari e l’ISM onorano la sua memoria a Ramallah. Tutta la Palestina sta condannando senza mezzi termini e ad alta voce questo terrorismo che spero non metta mai radici nella nostra terra.
Francesca Lancini
Pubblicato su east 36 nel maggio 2011 con il titolo “A mani nude contro il muro”