Di questi tempi mi capita spesso di sentirmi dire: “rassegnati”, “non cambierà mai nulla”, “non ti sorprendere”, “tutto cambia, niente cambia”. Questi interlocutori, però, dimenticano che il mio mestiere di giornalista consiste proprio in un atteggiamento opposto. Spesso hanno ragione; si riferiscono all’Italia. E per quanto io sappia che il “Gattopardo” ci rappresenta benissimo, dalla pandemia fatico più di prima a tollerare che nessuno shock possa scuoterci fino al cambiamento.
Informazione e politica, un Paese minore
Anche prima mi capitava di dire e lo ripeto oggi “siamo una sorta di Paese minore”, vassallo, indebolito o di “ventre molle” dell’Europa – come sostengono in tanti – nonostante il nostro ruolo di fondatori dell’Unione Europea. Qui la propaganda russa di Putin e quella cinese di Xi Jinping hanno attecchito in modo impressionante. “Siamo un Paese minore” nel modo in cui ci percepiscono altre democrazie, per gli stipendi fermi da 20 anni, la generazione 1000 euro alla quale non è mai stato concesso di diventare adulta, per i ricatti commerciali a cui ci sottoponiamo, per una stampa pervasivamente polarizzata e politicizzata, per la corruzione endemica, per la mentalità opportunistica e clientelare, per il fatalismo incancrenito. Che cosa ci impegnamo a fare?
Le nostre fonti in Asia sempre più a rischio
L’altro ieri, davanti all’ennesimo messaggio di una ex collega che mi ha scritto: “Datti alla pittura o allo yoga come me, in Italia il giornalismo è morto”, ho reagito con la foto dei giornalisti imprigionati in Asia, l’area del mondo di cui mi occupo. Ne ho conosciuti e ne conosco tuttora molti entusiasti di informare, che non pensano minimamente di arrendersi! Lo so, il mio riferimento può sembrarvi un salto carpiato, ma non lo è. Pensateci bene, che cosa dovrebbero dire questi reporter che in diversi Paesi del mondo continuano a informarci malgrado rischi e difficoltà? Molti dei quali sono fixer, stringer, cioè professionisti che accompagnano altri giornalisti stranieri?
Cina, la più grande prigione di giornalisti
Secondo i vari rapporti sulla libertà di stampa, sono in aumento i crimini contro i giornalisti asiatici. La Cina (con un’attenzione particolare ad Hong Kong passata dal 2020 di fatto sotto il controllo autoritario di Pechino) resta la più grande prigione per i giornalisti, e lo è da quando ho iniziato questo lavoro, nel 2001. Seguono il Myanmar, con la sua terribile guerra civile dove la giunta militare golpista dal 2021 sta massacrando la sua stessa popolazione e devastando il Paese; il Vietnam, la Cambogia, l’Indonesia, le Filippine, il Bangladesh…
Qui il link a Radio Free Asia con le storie di alcuni reporter che hanno perso la vita mentre e perché svolgevano il loro lavoro.
- foto d’apertura di Radio Free Asia