Reportage-inchiesta nell’Italia in bilico fra arretratezza, caos, vuoto politico e slanci innovativi. Protagoniste: le strade della capitale economica Milano.
“Affittami”, chiede un’edicola a chi entra in un comune dell’hinterland milanese, oggi chiamato “città metropolitana di Milano”1. La scritta in rosso è ripetuta per tre volte sulla saracinesca abbassata, dipinta di giallo. Sembra un tentativo accorato di uscire dal grigiore e dall’indifferenza della metropoli che dovrebbe includere, proprio per la sua reputazione di capitale economica italiana. Ma oltre la tangenziale, il paese di Cesano Boscone riconferma la funzione di dormitorio per pendolari e abitanti sempre più anziani. Qui le chiusure dei negozi, precedenti alla recessione mondiale del 2008 e da quest’ultima accelerate, producono “desertificazione”.
Secondo gli analisti e le associazioni dei commercianti, il deserto avanza “a macchia di leopardo”. Le tipiche imprese italiane, a gestione famigliare, soffrono dagli anni Ottanta, ma negli ultimi anni di crisi sono sparite progressivamente per il calo della domanda, l’onerosità di tasse e affitti, la stretta del credito, la concorrenza dei centri commerciali e degli ambulanti (Foto 2). All’Università degli Studi di Milano, Luca Zanderighi, professore di Economia e Gestione delle Imprese, spiega: “Non in modo omogeneo sul territorio nazionale, ma specialmente nelle zone montane, in quelle di pianura con maggiore dispersione della popolazione e negli addensamenti di persone più deboli c’è una scarsa presenza di offerta commerciale e si pone il problema di come garantire un servizio di base nel prossimo futuro”.
Confesercenti, che rappresenta 350mila piccole e medie imprese, prevede che il 2016 sia il sesto anno consecutivo di contrazione per il commercio in sede fissa. Il saldo fra aperture e chiusure migliora rispetto al 2015, ma rimane negativo dal 2011. “Quest’anno potremmo giungere a un numero compreso fra le 9mila e le 12mila imprese al dettaglio in meno”, spiegano dall’Osservatorio Confesercenti di Roma. Nel 2015, invece, erano scomparsi 15 mila negozi, che ammontavano a 29mila attività considerando anche bar, ristoranti, ambulanti, vendite porta a porta e online. I locali sfitti erano 627mila, il 25% del totale disponibile e addirittura il 40% in alcune periferie.
Negli ultimi mesi una temporanea ripresa dei consumi e una frenata nelle chiusure ha generato qualche speranza, seppur debole. Malgrado la propaganda ottimista del governo Renzi, per l’Istat l’anno scorso l’economia italiana si è espansa solo dello 0.7%. Sempre l’Istituto nazionale di statistica ha stimato oltre 4,5 milioni di italiani poveri in termini assoluti, il numero più alto dal 2005. E per la prima volta in Italia ha registrato un’inversione radicale di tendenza. Non sono gli anziani i più indigenti, ma i giovani: 10.2% fra i 18 e i 34 anni, contro il 4% dai 65 anni in su.
Nella via pedonale di Cesano B. si susseguono botteghe antiquate o con la serranda chiusa e il consueto numero di telefono per chi intendesse risollevarla (Foto 3). L’atmosfera si anima un po’ intorno a “El cafferìn”, un vecchio locale che il trentenne Andrea ha rinnovato per una clientela trasversale. “Mancava un luogo che attirasse i giovani”, racconta l’ex pubblicitario.
Figlio di una generazione precaria, adesso punta su espresso e aperitivo, i must dei bar italiani. Non si è arreso al fatto che la sua città continuasse a spegnersi assieme alle luci dei negozi.
Fino al dopoguerra il cuore dei borghi intorno alla Milano che si stava industrializzando erano le piazze con le botteghe. Ma la mancanza di una regia del territorio, laddove c’erano cascine e campagna, favorì l’edilizia incontrollata di case popolari senza servizi, luoghi di aggregazione e negozi. Nella pianura Padana aumentavano le fabbriche e si erigevano agglomerati di torri e palazzi. Solo a Cesano B. i migranti interni fecero quadruplicare la popolazione da 5mila a oltre 20mila abitanti.
La cementificazione dell’hinterland procedeva senza soluzione di continuità. Nella “città infinita” di stampo statunitense, che divora suolo e prodotti, si utilizzava sempre più l’automobile. Le tangenziali diventavano le nuove vie dello shopping. Si popolavano in modo sempre più fitto di catene in franchising e ipermercati, anche se tardivamente rispetto alla Francia e ad altri Stati europei. Si era già immersi negli anni Novanta.
“La mancanza di un piano regionale e trent’anni di deregulation hanno favorito la concentrazione smisurata di centri commerciali in aree dove si è infiltrata la criminalità organizzata”, denuncia Lorenzo Frigerio, di “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”. “Perché i comuni dell’hinterland hanno permesso di costruire? In cambio di contributi per la creazione di opere pubbliche e di posti di lavoro”. In un rapporto di Libera5 citato da Frigerio, si legge che i primi ingenti investimenti di “denaro sporco” sulla piazza milanese risalgono ai primi anni ’60 e che oggi, dopo una prevalenza dei clan siciliani, le cosche calabresi sono ramificate in tutto il Nord e specialmente – secondo Transcrime6 – nei settori del commercio e delle costruzioni.
A causa delle sue complessità, il sistema italiano ha accumulato uno scarto almeno ventennale in termini di sviluppo economico. Al Sud il livello dei servizi è molto arretrato e non ci sono opportunità sufficienti per i giovani. Al tempo stesso, per questi ritardi, il nostro Paese detiene paradossalmente ancora una fitta rete di vicinato, con oltre 600mila negozi. Mariano Bella, responsabile dell’Ufficio Studi di Confcommercio, voce di 700mila imprese, anche della grande distribuzione, è preoccupato per le città medie e piccole: “Non vogliamo che i centri storici di Perugia, Parma o Trieste diventino dei musei per turisti o successioni omologate di banche, assicurazioni, brand multinazionali della moda. Qui la riduzione dei negozi è addirittura del 17%, mentre in periferia – dove almeno è compensata dalla grande distribuzione – del 14%”.
L’equilibrio è fondamentale anche per il sociologo dei consumi Vanni Codeluppi, che dalla medievale Reggio Emilia spiega: “Non bisognerebbe demonizzare in sé la concorrenza del centro commerciale. Nel processo di modernizzazione andava piuttosto mantenuto un bilanciamento fra il modello urbano, che in Italia si identifica in un antico patrimonio artistico e culturale, e quello extra-urbano”.
Alle porte di Cesano B. giganteggia Auchan, che serve un bacino di 200mila potenziali consumatori. Vi arrivano in auto da Milano sud e dai comuni limitrofi soprattutto il sabato, per l’unica spesa settimanale. Con la sua architettura da cattedrale postmoderna dimostra che non basta essere grandi per vincere sul mercato. Quello che l’antropologo Marc Augé avrebbe definito un “non luogo”, adesso si chiama “Auchan City, ipermercato di città, ipermercato di vicinato” e ha scongiurato la chiusura con una ristrutturazione che ne potenziasse proprio la funzione sociale.
Concorrenza agguerrita, eccesso di offerta, affitti troppo alti, architetture poco funzionali. “Il fenomeno americano dei ‘dead mall’, che sono falliti, è arrivato anche qui”, continua Codeluppi. “I centri commerciali sopravvivono se creano relazioni virtuose col territorio. Ovvero, non in quanto “non luoghi”, ma “iperluoghi”7 progettati come piazze pulite, comode, sicure, funzionali”.
Auchan City per ora si è salvato perché colma il vuoto di servizi territoriali. Nelle sue gallerie si passa dallo sportello comunale allo studio di commercialista, dalla clinica dentistica ai luoghi di intrattenimento per bambini. Di fatto, è l’unica polarità di una città dispersa. Aggiunge il sociologo: “L’uomo contemporaneo resta un animale sociale, ma è talmente affaticato dagli stimoli che si accontenta di surrogati delle relazioni precedenti. Viziato dalle gratificazioni consumistiche, evita i problemi. Sfugge il peso della responsabilità che i rapporti umani comportano”. Alla piazza esposta del primo Novecento, gli abitanti dell’ “ipermondo” coniato da Codeluppi preferiscono quella “fredda” di un supermercato e di Internet.
Tuttavia, quando si entra in Milano, la strada torna protagonista. Percorrendo da Cesano B. idealmente un’antica via commerciale, ci si ritrova su una linea retta di quattro chilometri che salda la cosiddetta periferia del Giambellino-Lorenteggio con il distretto virtuoso del design. L’urbanista Gabriele Rabaiotti, neo-assessore ai Lavori Pubblici e alla Casa della giunta milanese, mostra come questa arteria sia divisibile in tre segmenti, che rappresentano altrettante realtà del vicinato contemporaneo.
Nel tratto più esterno di via Giambellino il tram 14, passato solo mezz’ora prima dalla centrale piazza Duomo, finisce la sua corsa. L’erba tra le rotaie è incolta. Qualche sacco della spazzatura giace accanto ai binari. Questo è il vero quartiere popolare del Giambellino, dove la migrazione extracomunitaria, come nel resto d’Italia, è recente. Soprattutto a partire dagli anni Novanta e nel nuovo millennio si è sommata a una popolazione di vecchi migranti dell’Italia meridionale e orientale, che cominciò a insediarsi negli anni Trenta, con un picco durante i Sessanta.
Rabaiotti definisce “obbligata” la convivenza fra italiani e almeno 6mila famiglie di 18 etnie. Tra nordafricani, cinesi, sudamericani, rumeni, rom e italiani, “non c’è ancora integrazione. La politica degli ultimi trent’anni ha trascurato questi immigrati, lasciando
spazio al ghetto”, aggiunge colui che deve occuparsi proprio dei palazzi popolari fatiscenti, gestiti dal racket e abitati abusivamente. “A differenza della Francia in cui lo Stato interviene con forza – anche eccessiva – nei quartieri difficili, da noi sono prevalsi l’abbandono, il caos, la cattiva gestione”.
Di nuovo un paradosso, però: è in questa “anarchia” che il commercio straniero ha riempito in modo spontaneo i negozi. Spiega il neo-assessore: “Pur essendo povero, è vivo e in evoluzione. Certamente malconcio, ma adatto a una sopravvivenza a bassissimo costo. La macelleria halal, la rosticceria berbera, il bazar egiziano, sono luoghi di ritrovo sempre aperti. I loro clienti non hanno l’auto. Pagano a credito e a rate. Si aiutano come in Italia nel pre-guerra”. La sfida è aprire, regolare e abbellire questo universo chiuso. Secondo l’associazione culturale e di quartiere Dynamoscopio, il commercio etnico può diventare volano dell’integrazione. In altre zone milanesi sta già accadendo che la crescita commerciale sia trainata da persone di origine straniera. Rispetto al 2011, le imprese straniere sono cresciute del 54.8%. Delle 29mila attive a Milano un anno fa, il 33% sono straniere. Per la Camera di Commercio cittadina, che ha elaborato questi dati, Milano confermerebbe il ruolo di apripista dei fenomeni imprenditoriali. Anche sul territorio nazionale, Confesercenti ha registrato un boom di nativi all’estero, in particolare nei mercati. Delle 160mila imprese straniere sparse in tutta Italia, più della metà sarebbero ambulanti, e 9 su 100 attività al dettaglio in sede fissa.
“Ci vuole tempo per integrarsi”, dice fiducioso Vito dal suo banco di carni equine nel mercato coperto del Lorenteggio. Emigrato dalla Sicilia ancora adolescente, ha lottato affinché questo edificio del 1954 non venisse smantellato o trasformato in un discount. Per le tasse e gli affitti elevati, oltre la metà dei banchi era stata abbandonata. Alla struttura decadente serviva una ristrutturazione generale. Vito, 49anni, ha guidato altri quattro colleghi in una vera e propria resilienza, costituendosi in consorzio e ottenendo agevolazioni dal comune. Dynamoscopio lo ha aiutato nel riposizionamento. Puntando sulla relazione umana, sui prodotti a responsabilità sociale, sulla qualità del servizio e sull’ibridazione con mostre e musica, questo mercato comunale aspira a diventare un mini-presidio contro l’isolamento e il degrado. In attesa che arrivi la metropolitana, il giardino accanto e la via Odazio, sulla quale si affaccia il dedalo dei cortili popolari, sono stati dimenticati per decenni. Il senso di insicurezza è prevalso.
“Dal punto di vista commerciale mi preoccupa maggiormente il secondo tratto di via Giambellino”, dichiara Rabaiotti. Fra Largo Gelsomini e piazza Napoli il commercio è rado. Aumentano i locali vuoti. I residenti, tanti anziani, hanno una bassa capacità di spesa e comprano all’ipermercato oltre la tangenziale. L’urbanista indica i piani rialzati dei palazzi anni ’60 ad uso abitativo, che interrompono il flusso delle vetrine. “E’ qui che gli architetti di quell’epoca, come in molte altre zone della città, hanno ucciso il commercio. Col loro razionalismo hanno separato gli edifici per funzione: casa, lavoro e trasporti. Ma la città si ravviva con la mescolanza, non se in ordine”.
L’immobilismo è palpabile fra bar con tavoli di plastica e slot machine, phone center, mercerie polverose, centri massaggi tailandesi dalle vetrine oscurate. Per contrastare l’inerzia e facilitare il cambio generazionale, bisognerebbe sostenere i giovani con incentivi, per esempio canoni di affitto agevolato per riutilizzare gli sfitti. “Sulla strada la concorrenza è spietata. Lì avvengono i cambiamenti più significativi, non nei quartieri dei nuovi lussuosi grattacieli, come a Milano quelli di Porta Nuova e dell’Isola”, dice Stefano Sampaolo del Censis, il Centro Studi Investimenti Sociali con sede nella capitale. Fra gli artigiani, hanno chiuso magliai, calzolai, falegnami, tappezzieri che caratterizzavano le città medievali, rinascimentali e ottocentesche. Hanno inciso anche mutazioni di mentalità e degli stili di vita. Si è più ignoranti: nel Paese in cui il 9% delle famiglie non ha alcun libro in casa, è una morìa di librerie ed edicole. Reggono, d’altra parte, le attività legate al turismo o al cibo. Lo street food è la nuova moda.
Continua Sampaolo: “La strada meriterebbe più attenzione da parte della politica, che invece si è dimostrata acefala, senza regia. Dovrebbe essere la destinataria di progetti di riqualificazione integrati, che coinvolgano squadre di professionisti diversi. Non bastano i progetti ‘spot’ e gli architetti, come il pur stimabile Renzo Piano, che da senatore a vita è intervenuto in alcune periferie”.
La “filosofia del rammendo” di Piano, ovvero del piccolo progetto che lo ha spinto con un gruppo di giovani a ridisegnare proprio l’area del mercato comunale Lorenteggio, sembra non reggere di fronte alla complessità di questa zona. “In Francia – insiste lo studioso del Censis – sono state attuate politiche strutturali, mentre in Italia negli ultimi vent’anni abbiamo calcolato 700 iniziative per i quartieri degradati, costate in tutto 200 milioni di euro. Progetti frammentati, in assenza di un ministero e di un comitato dedicato, di una mappatura e di controlli”.
Il vicinato non sopravvive alla rarefazione, ma nel suo opposto: l’addensamento. A confermarlo nel suo studio al Politecnico di Milano, il professore di urbanistica Luca Tamini11, che si occupa dei Distretti urbani del commercio (Duc) istituiti con legge regionale nel 2008: “Le parole chiave per rilanciare il commercio sono concentrazione di negozi intorno a servizi e trasporti generatori di flussi; riuso e aggregazione degli sfitti; ibridazione regolata dei format; un freno al consumo di suolo e al suo impatto ambientale; city manager. Tutto ciò è possibile grazie alle liberalizzazioni, ma ancora una volta è necessaria una regia del territorio per garantire un equilibrio”.
Nell’ultimo tratto del Giambellino si percepisce la virtuosità del Duc. Quando sfocia in via Solari, porta d’ingresso del distretto del design, si susseguono i quartieri generali di marchi come Fendi e Moncler. Al centro di un giardino curato, ruota una giostra in stile Belle Epoque. Tutt’intorno il vicinato è sano, sebbene a volte costoso: edicole floride, drogherie, enoteche, atelier di fiorai. Tamini aggiunge: “Anche i mini-market Sigma o Carrefour sono vicinato. Il commercio di prossimità è cambiato quanto il consumatore”.
Dello stesso parere è l’economista Luca Zanderighi, con il quale Tamini collabora da tempo: “In un mondo più povero e pervaso dalle nuove tecnologie, chi compra è più attento. Può recarsi al piccolo supermercato di quartiere o all’outlet, se decide di risparmiare. Non si spiegherebbe il successo dei discount, se ci andassero solo i poveri.
Allo stesso tempo, per uscire dall’ ‘autismo digitale’ – sebbene gli acquisti online non siano ancora decollati in Italia – il consumatore si reca in bottega a patto che offra un’esperienza speciale”.
Intanto, il ferramenta Giulio prosegue nel lavoro cominciato dal nonno nel 1927. Fra semilavorati per le industrie e utensileria, custodisce le memorie del quartiere Solari. Un bambino lo osserva dal retrobottega. Forse un giorno accoglierà lui i clienti. Giulio è cresciuto nei “favolosi Sessanta”, quando in Italia nacque il ceto medio e si aveva la quasi certezza di “un posto fisso”. Mezzo secolo dopo quel piccolo mondo antico non esiste più. Prevale la sfiducia verso lo Stato, identificato con le tecnocrazie. Fra gli analisti c’è chi non crede in un cambiamento dall’alto, mentre gli elettori fuggono dalle urne.
Si dibatte di decrescita e post-crescita, definizione creata nel 2010 dal sociologo Giampaolo Fabris. Egli sperava che un neo-consumatore riflessivo cercasse “un punto di equilibrio tra l’avidità di ieri e l’anoressia che oggi viene predicata dai profeti della decrescita, tra il consumismo ingordo e la rinuncia a quasi tutto ciò che il mercato propone”. Tuttavia, sei anni dopo, si continua a oscillare fra lussi per pochi e beni usa e getta o “fast”16. Nonostante gli slanci verso la mescolanza e l’integrazione, i consumi continuano a riflettere un quadro bipolare.
Woah! I’m really digging the template/theme of this site.
It’s simple, yet effective. A lott of times it’s very hard to get that “perfect balance”
between user friiendliness and visual appeal. I must
say you have done a amazing job with this. In addition, the blog loqds
very fast for me on Internet explorer. Excellent Blog! https://lvivforum.pp.ua
Thank you!