Sono sempre più numerosi i bambini birmani che dalle campagne si recano nelle metropoli in espansione in cerca di lavoro dopo l’apertura al libero mercato.
Mentre il Myanmar (denominato Birmania fino al 1989) ha intrapreso la strada tortuosa verso la democrazia e il libero mercato, sempre più bambini birmani si spostano dalle campagne alle città in cerca di lavoro. A partire dal 2012 una forma di migrazione tipica dei paesi in via di sviluppo, come la confinante Cina, è diventata comune anche nel paese.
Il neocapitalismo si approfitta dei bambini birmani
Negli ultimi quattro anni, dopo le prime elezioni libere che hanno portato al governo la Lega nazionale per la democrazia, partito del Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, insieme con gli ex militari, sono stati garantiti maggiori diritti alla popolazione, ma anche spalancate le porte a nuovi abusi e contraddizioni.
Migliaia di minori, soli o con parenti, stanno abbandonando i villaggi e la scuola per fuggire dalla povertà e sostenere le loro famiglie. Tuttavia, per la loro vulnerabilità e assenza di protezioni genitoriali diventano spesso vittime di tratta e sfruttamento in tea-shop, cantieri, hotel, ristoranti e per strada, dove sono costretti a vendere piccoli beni o a chiedere l’elemosina ad automobilisti e passanti. Di frequente, a trovare un’occupazione ai bambini sono dei “broker”, agenti della tratta, comunemente detti trafficanti, che mediano fra le famiglie e i datori di lavoro, spesso ingannando sulle destinazioni dei ragazzi.
Urbanizzazione selvaggia e sfruttamento minorile
Lo sfruttamento minorile è sempre stato uno dei problemi principali in Myanmar. L’ultima indagine governativa del 2015 stima circa 1,3 milioni di minori lavoratori in Myanmar su un totale di 12 milioni, dei quali più della metà sarebbe impiegata in mansioni pericolose che possono danneggiarne lo sviluppo fisico, mentale o morale. Nonostante l’elevato numero calcolato dal governo birmano, vari osservatori ritengono che questa cifra non sia del tutto attendibile perché al ribasso.
Non si dispone, invece, di dati certi sul nuovo esodo causato dall’urbanizzazione partita in modo dirompente dopo 50 anni di dittatura militare (1962-2012). Dalle testimonianze degli attivisti per i diritti dei bambini, però, emerge che ‘i piccoli esuli’ sono sicuramente diverse migliaia.
In aiuto dei ragazzi, le scuole mobili di myME
“Da quando, tre anni fa, abbiamo lanciato il progetto di educazione informale, ci siamo occupati di oltre 5mila giovani”, racconta dall’ex capitale Yangon Tim Aye Hardy, direttore di myME, Myanmar Mobile Education Project. “Attualmente il nostro programma coinvolge più di 3mila studenti, dei quali la maggior parte proviene da tea-shop, locande di strada, scuole monastiche e comunità disagiate. Alcuni sono orfani”.
Hardy, che nel 1988 ha partecipato alle proteste studentesche contro la giunta militare e l’anno successivo dovette rifugiarsi negli Stati Uniti, è tornato 15 anni dopo in Myanmar con un’idea semplice ma efficace: ristrutturare i vecchi scuolabus rendendoli sicuri, confortevoli e colorati per accogliere i ragazzi a fine lavoro. Come si vede nel video girato da myMe, gli autobus raggiungono gli studenti e si trasformano in scuole mobili per due ore al giorno, ma anche in luoghi di ritrovo e assistenza psicologica. “Non insegniamo solamente a scrivere o a contare – spiega Tim – ma anche a sviluppare una coscienza critica, un’adeguata autostima e a stare insieme”.
Quando gli chiediamo com’è cambiato il suo paese da quando lo ha lasciato, Tim risponde: “Il panorama di Yangon muta tantissimo di giorno in giorno. Dall’inizio della transizione (verso la democrazia e il capitalismo, ndr.) si elevano grattacieli, grandi hotel e spuntano nuove attività commerciali. Ma tutto ciò avviene in mancanza di infrastrutture, vie di comunicazione di base e all’interno di un sistema sociale e istruttivo disfunzionale”. Le scuole mobili hanno avuto un tale successo nelle città più grandi di Yangon, Mandalay e Kyauk-Se, che myMe ha dovuto radunare gli allievi negli stessi tea-shop dopo la chiusura serale. Un’iniziativa simile l’abbiamo vista in un contesto molto diverso e avanzato, il Giappone, dove bambini poveri (non lavoratori), vengono accolti in caffetterie per ricevere un pasto e sostegno.
Child labor e debt bondage, le nuove schiavitù secondo l’Ilo
Per alcuni ristoratori, come per gran parte dei birmani, l’impiego di minori “è accettabile”, in quanto forma di sostentamento per i più poveri. Lo conferma a LifeGate, sempre da Yangon, Selim Benaissa dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo, International labour organization). È proprio l’agenzia Onu ad aver definito internazionalmente il “child labor” come pratica da combattere: “Un lavoro che priva i bambini della loro infanzia, del loro potenziale e della loro dignità, e che è pericoloso per la loro crescita fisica e mentale”.
Esso può compromettere l’istruzione dei ragazzi, impedire loro di andare a scuola, e manifestarsi nelle forme peggiori di schiavitù e lavoro forzato. Fra queste, si registrano anche in Myanmar l’utilizzo di bambini soldato, l’obbligo a prostituirsi e il cosiddetto “debt bondage”, cioè la riduzione in schiavitù di una persona, anche un minore, per ripagare un debito.
Selim Benaissa aggiunge che l’esodo di bimbi e adulti dalle campagne è diretto soprattutto verso le due città più grandi, Yangon e Mandalay, i loro sobborghi e le zone industriali. Il funzionario dell’Ilo parla di un gap pericoloso: “È assai evidente il divario fra lo sviluppo di poche grandi città e la maggioranza degli altri centri urbani. Se non si bilancerà la distribuzione delle attività economiche, continueranno ovviamente le migrazioni e perdureranno i problemi legati al lavoro minorile”.
Orari disumani
Nel 2013 il governo birmano ha ratificato la C 182, la Convenzione sulle forme peggiori di lavoro minorile, e rivisto alcune leggi. In Myanmar i bambini al di sotto dei 13 anni non potrebbero lavorare in negozi e fabbriche, mentre gli adolescenti fra i 13 e i 15 anni non dovrebbero essere impiegati per più di 4 ore al giorno e di notte. Eppure, l’ex Birmania si distingue proprio per un triste record: l’eccessivo tempo di lavoro, che oscilla da una media di 52 ore a settimana a 60 o più. Tim Aye Hardy aveva ben spiegato in un articolo di Asia Times come l’aumento del costo della vita in città e dell’inflazione spingessero i datori di lavoro a sfruttare la manodopera infantile a bassissimo costo, pagando in media un dollaro al giorno e 22 al mese.
D’altra parte, Benaissa spera in un progressivo miglioramento: “Da quando è cominciato il processo di riforme nel 2012, si può discutere più apertamente di temi come lo sfruttamento minorile. Diversi ‘stakeholder’ (portatori d’interesse, ndr) sono impegnati in questa campagna contro il lavoro dei bambini, fra cui il governo, la stessa Ilo, la società civile, i sindacati, e le organizzazioni dei datori di lavoro. Bisogna migliorare, però, il coordinamento fra le agenzie governative e i diversi ministeri”. Nel 2014 il governo, supportato dall’Onu, ha rilasciato 322 bambini soldato e altri 146 nel 2015. Tuttavia è ancora diffuso l’utilizzo di minori nelle guerriglie attive nel paese (vari gruppi separatisti in conflitto con lo stato) e come servitori, portatori, cuochi, lavapiatti dell’esercito nazionale in base alla sua politica di “autosufficienza”. I piccoli sfollati delle minoranze Kachin, Shan (circa 100mila) e rohingya (almeno 120mila) restano particolarmente a rischio di tratta.