Spendono cifre stellari come sponsor di Euro 2016, ma dalla Cina all’Indonesia vanno a caccia dei salari più bassi.
La denuncia in un dossier francese.
Euro 2016 e l’Asia. I principali sponsor dei campionati europei di calcio, Adidas e Nike, sono in realtà impegnati in due partite.
Sui campi francesi lottano a colpi di marketing, vestendo fuoriclasse e squadre. In Asia i due titani dell’abbigliamento sportivo vanno a caccia di salari sempre più bassi “fuggendo la loro responsabilità sociale”. A sostenerlo è un dossier realizzato da due media francesi: il mensile Alternatives Economiques e il sito d’informazione indipendente Basta! con il sostegno della svizzera Fondation Charles Leopold Meyer.
Si gioca su due fronti
Come evidenziato dal sito di marketing The Drum, Adidas vince fornendo divise a 24 squadre, contro le 6 di Nike e le 5 di Puma. Tra i testimonial, Nike sceglie il “costosissimo” pallone d’oro Cristiano Ronaldo, mentre Adidas punta sulla stella delle Juventus Paul Pogba. Nel parallelo mondo del web, invece, Nike battaglia con un maggior numero di follower sui profili social.
La seconda competizione, meno visibile ma molto più estesa, è in Asia e dura da almeno vent’anni. “Qual è il punto in comune fra Cristiano Ronaldo e un operaio di una fabbrica tessile vietnamita? Una marca: Nike. Il primo gode di un contratto di sponsorizzazione intorno ai 25 milioni di euro annuali per sfoggiare scarpe e divise con la stampa del celebre logo. Il secondo li confeziona per circa 170 euro mensili”, così si legge nell’incipit del dossier.
Non si tratta di un parallelo spregiudicato. Il rapporto vuole sottolineare il disequilibrio fra gli investimenti in marketing e comunicazione, e le paghe dei lavoratori alla base della filiera che produce i capi sportivi più diffusi del pianeta. Da sole, Nike, Adidas e Puma rappresentano il 70 per cento del mercato mondiale dello sportswear. I giornalisti di Basta!, Germain Lefebure e Ivan du Roy, sostengono che il guadagno dell’operaio vietnamita di Nike è di molto inferiore al salario vitale o di sussistenza, che permette di soddisfare bisogni fondamentali come alloggio, energia, acqua potabile, alimentazione, vestiario, salute e istruzione.
Spiegato in altri termini, secondo l’alleanza di sindacati e ong asiatiche per il salario minimo Asian Floor Wage, con i circa 25 milioni del contratto di sponsorizzazione concluso fra Nike e la star portoghese del Real Madrid si potrebbero pagare per un anno salari vitali a 19.500 operai vietnamiti delle fabbriche subappaltatrici. Sul sito bastamag.net è disponibile anche un “videogioco”, che calcola quanti operai potrebbero essere remunerati con il costo delle sponsorizzazioni di nazionali, club e calciatori. Le stime sono state realizzate da Basic, Bureau d’analyse sociétale pour une information citoyenne (Ufficio d’analisi societaria per un’informazione cittadina).
Per Nayla Ajaltouni del Collectif éthique sur l’étiquette, la cui missione dal 1995 è globalizzare i diritti umani sul posto di lavoro, i grandi marchi sportivi “spendono sempre di più nel settore comunicazione-marketing e nella ricerca di rendimento per gli azionisti senza che i lavoratori – che contribuiscono alla loro crescita – ne traggano un beneficio reale”. Negli ultimi dieci anni i salari nelle fabbriche subappaltatrici, in particolare di Cina, Vietnam e Indonesia, sarebbero rimasti stabili, mentre i dividendi per gli azionisti di Nike sarebbero cresciuti del 135 per cento e quelli di Adidas del 66 per cento.
La Cina è troppo cara. Good Morning Vietnam!
Ad essere criticata è la sproporzione di costo che continua ad aumentare. L’Asia floor wage alliance spiega: “In Asia l’industria del vestiario ha procurato un impiego a milioni di donne e uomini, ed è dietro a una delle più grandi crescite economiche della regione. Ma questa rapida crescita è arrivata con un prezzo che stanno pagando gli operai”. In vari paesi i sindacati lottano per un salario minimo, ma correndo dei rischi. Quando si aumentano le retribuzioni, le multinazionali tendono a spostare la produzione in zone più povere e vantaggiose, spingendo gli operai a smettere di chiedere paghe adeguate per paura di restare senza lavoro.
La crescita degli stipendi annuali medi e minimi in Cina ha spinto le corporation a rifornirsi altrove: in regioni più disagiate della stessa Repubblica Popolare – come lo Xinjiang – o presso i vicini Vietnam, Indonesia, Cambogia e addirittura Birmania, l’ultimo Paese asiatico a essersi aperto al capitalismo globale, nella sua transizione – tuttora in corso – dalla dittatura militare alla democrazia. Secondo Basic, entro il 2020 la produzione in Cina di t-shirt Adidas calerà dal 33 per cento al 12 per cento e quella di scarpe dello stesso brand dal 23 per cento al 15 per cento.
Pechino corre ai ripari
Il governo cinese sta cercando di mantenere un equilibrio tra aumento graduale dei salari per favorire la domanda interna e offerta di incentivi alle imprese manifatturiere per installarsi in zone a più basso costo. Lo scrive il corrispondente da Cina e Taiwan del Wall Street Journal, Mark Magnier, nell’articolo How China is changing its manufacturing strategy. Secondo la ricercatrice Justina Yung del Politecnico di Hong Kong – riporta sempre Magnier – il numero delle fabbriche nel delta del fiume Pearl, di proprietà di aziende di Hong Kong, è sceso di un terzo fra il 2006 e il 2013. Molte si sono trasferite in altri Paesi. “Spostarsi in Vietnam è di tendenza”, dice al reporter statunitense Wang Wei, general manager di un’azienda che ha installato nel SudEst vietnamita la sua prima fabbrica da cui rifornisce calzature tutti e tre i giganti dello sportswear, Nike, Adidas e Puma. Un secondo stabilimento è in agenda.
Intanto, c’è chi torna in patria. Dopo 30 anni di delocalizzazioni, Adidas ha riaperto una fabbrica di scarpe in Germania dove i protagonisti sono i robot. Le manifatture in casa sarebbero più flessibili e veloci, ma soprattutto costerebbero meno e consentirebbero di soddisfare la domanda di prodotti su misura (customization). Una terza partita si sta aprendo, nella scelta fra robotica industriale e persone.
E i diritti umani?
Dagli scandali in cui si scoprì che i subappaltatori di Nike e Adidas sfruttavano i bambini, sono stati moltiplicati i controlli e raggiunti dei traguardi. Nel 2011 sei grandi marche, tra le quali Adidas, Nike e Puma, hanno firmato un accordo per la libertà sindacale in Indonesia. Due anni più tardi Adidas ha accettato di risarcire 2.800 operai indonesiani rimasti senza lavoro dopo la fuga del loro capo. E nel 2014 vari marchi tessili, tra cui i tre principali sponsor di Euro 2016, hanno chiesto al governo cambogiano di rispettare i diritti degli operai che protestavano per un salario minimo. A Phnom Penh le fabbriche sono spesso dirette da cinesi, che hanno delocalizzato in Cambogia per l’innalzamento dei salari in patria.
Se le paghe sono ancora troppo basse, un passo in avanti è stato compiuto col Blue Sign, la firma blu di Adidas e Nike per bandire materiali tossici precedentemente usati dai fornitori. Fu Greenpeace con la Detox Challenge a denunciare nel 2011 i danni per l’ambiente in Cina e, durante i mondiali di calcio del 2014, la presenza delle sostanze chimiche pericolose in vari articoli.
L’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) ribadisce che “nei nuovi lidi” Vietnam, Indonesia e Cambogia spesso non si rispettano le regole base sui salari minimi e sugli orari. Intanto, la Clean clothes campaign riporta che 346 indonesiani starebbero ancora aspettando un indennizzo equo dai marchi Mizuno e Adidas. Erano tra i 1.300 intimiditi e poi licenziati dal subappaltatore locale PDK per aver scioperato nel 2012, in nome di un salario minimo e della libertà di associarsi. Di loro, 954 operai hanno accettato un’esigua ricompensa, mentre gli altri 346 non si sono accontentati di concessioni parziali.
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