Un pomeriggio con gli esuli siriani a Milano, negli ultimi mesi principale crocevia di chi sogna pace ed Europa.
Un anno fa, in un venerdì di festa e preghiera, un bombardamento dell’aviazione siriana distrusse la sua cameretta, trasformando i suoi sogni di bambino in incubi ricorrenti.
Chiede di essere fotografato Mohamed, mentre indica vittoria, come gli ha insegnato il padre. A soli sei anni è riuscito a fuggire con tutta la sua famiglia da Dara’a, antichissima città nel sud della Siria, e – dopo una lunga tappa in Libano – ad approdare in Italia. Da vari giorni è in transito, con oltre un centinaio di profughi, a Milano, alla Casa della Carità, nell’estremità di via Padova, la cosiddetta via dei migranti.
Sorride molto Mohamed ed è incuriosito da questo luogo. Corre per il cortile e intorno all’ulivo su cui sono stati stesi degli abiti. Simula la lotta con gli altri ragazzini, li abbraccia e si sdraia sul prato sfinito.
“Sono diventato vecchio prima di invecchiare”, dice suo padre Ahmed, accarezzandosi il volto a sprazzi canuto di trentaquattrenne. “E’ stato operato due volte alla testa il mio bambino, e ha un taglio alla gola perché non riusciva più a respirare. Ha trascorso tre mesi in stato confusionale. Ora va meglio, ma non sente dall’orecchio destro e zoppica un poco, a seguito della frattura a una gamba. Ha meno forza nella mano sinistra”. L’uomo, che faceva il decoratore, è arrivato nel nostro Paese con altri due figli di quattro e nove anni, e con la moglie che sorride, ma resta in disparte.
I membri di questa famiglia appartengono alle 6mila persone che sono passate dal capoluogo lombardo dall’ottobre scorso, quando in un naufragio a Lampedusa morirono 366 persone. Per impedire altre tragedie, alla fine di quello stesso mese, il governo presieduto da Enrico Letta aveva avviato l’operazione militare di monitoraggio e intervento nel Mediterraneo “Mare Nostrum”. Ma dopo otto mesi senza naufragi, il 12 maggio 2014, non si è riusciti a impedire che un barcone con 400 persone a bordo affondasse tra Libia e Lampedusa. Così il dibattito su “Mare Nostrum” è riesploso: da una parte le organizzazioni umanitarie chiedono continuità, dall’altra il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, nel pieno della sua propaganda elettorale xenofoba, ne ordina la sospensione.
Intanto, pochi si occupano di raccogliere e diffondere le drammatiche storie di chi fugge da guerre e povertà. Dopo viaggi che possono durare più di un anno, risalgono la penisola, solitamente senza documenti, venendo accolti da strutture che si sono accordate con i Comuni. La maggior parte sosta a Milano, crocevia strategico per raggiungere parenti e amici nel Nord Europa, soprattutto Germania e Svezia, affidandosi nuovamente ai faccendieri di un traffico ben organizzato.
Dal 2 maggio è un andirivieni. Molti disperati sono già ripartiti, altri sono stati respinti alle frontiere. “ ‘Mare Nostrum’, deve continuare, ma non è sufficiente, è un’azione di emergenza nell’emergenza”, spiega all’Espresso Don Virginio Colmegna, classe 1945, nominato presidente della Casa della Carità dal Cardinal Martini. “Va potenziato per mezzo di accordi internazionali. Bisogna, cioè, aprire un cordone umanitario che inizi nei luoghi di partenza. Solo così si potranno fermare i traffici di merce umana, nelle varie tratte, dalle terre e coste africane, e poi da qui al resto d’Europa”.
“Stiamo lavorando – aggiunge il prete, che nella sua Casa ospita anche il Centro Studi sulla Sofferenza Urbana – a livello politico e giuridico, affinché a questi esuli sia dato il permesso umanitario, ovvero un sistema di protezione che consenta loro di muoversi autonomamente in Europa. Questo calvario non può più passare sotto un silenzio omertoso. Riguarda tutti: l’Italia, l’Unione Europea, le convenzioni internazionali. Queste ultime devono superare gli accordi di Schengen, a partire dai minori, perché il diritto all’infanzia è intangibile”.
Anche a Nur, diciottenne incorniciata da un velo color miele, hanno distrutto la casa. Siede con la madre e il fratello su una delle brande infilate nell’auditorium, “troppo piccolo ormai – dice Don Colmegna – in vista di nuovi arrivi”. Doveva diplomarsi, ma non poteva più restare al campo palestinese di Yarmouk, nella periferia di Damasco. La ragazza arrossisce e sorride per eclissare la tristezza. E’ troppo doloroso raccontare quella che Amnesty International ha definito “una storia dell’orrore, fatta di crimini di guerra, fame e morte”.
Da quando le forze governative siriane assediano Yarmouk (luglio 2013), almeno 200 civili avrebbero perso la vita, di cui 128 per denutrizione. Nur racconta del suo sogno di diventare medico. Dice che qui riesce a riposare e che è grata agli italiani. Ma le mancano gli altri membri della famiglia: il padre in Egitto con due sorelle più piccole, e la minore di tutti i fratelli in Germania con uno zio. Ad Hannover spera di ricongiungersi con gli altri e di ricostruirsi un’esistenza. Dalla Siria è volata prima a Beirut e poi al Cairo. “Lì non c’erano aiuti, speranze. Pensavamo di morire in mare, una volta salpati dal litorale egiziano. Invece, siamo riusciti ad arrivare nei pressi di Catania”, aggiunge la madre di Nur, dagli occhi scuri come l’hijab che porta.
Accanto, un neonato dorme abbracciato a un peluche. I piccoli siriani – di età compresa fra gli otto mesi e i dieci anni – sono una trentina, ma il numero potrebbe variare visti i continui sbarchi. Gli uomini aiutano i volontari. E’ quasi sera, bisogna organizzare i turni delle docce. Nessuno ci ha parlato dei cosiddetti ribelli o delle altre fazioni dell’opposizione, tra cui i numerosi gruppi islamisti che combattono contro l’esercito governativo. Si sente solo dire “il capo è cattivo”, con riferimento al presidente Bashar Assad. Al tramonto Ahmed scherza su una panchina con Nour, un vicino di casa, muratore, fuggito anche lui con moglie e figli. Ma se gli chiedi nuovamente della Siria, dove spera di tornare come quasi tutti questi esseri umani costretti a diventare profughi, si fa serio: “Hanno cominciato a uccidere le persone come fossero animali”.
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