Alla fine dell’anteprima italiana di “Omar”, qualche settimana fa, in una Firenze troppo provinciale, molti spettatori sono quasi fuggiti dalla sala. Si aspettavano qualcosa di meno potente. Speravano in una conclusione diplomatica. Non sono rimasti ad ascoltare il regista e sceneggiatore, che era lì – generosamente – per rispondere a tutte le domande, malgrado fosse notte. Eppure si trattava di Any Abu Assad, palestinese nato nel 1961 nell’israeliana Nazaret, che lo scorso marzo era presente all’Oscar per la candidatura di “Omar” al miglior film straniero, insieme con Paolo Sorrentino.
Già nel 2006, dopo aver vinto un Golden Globe, aveva gareggiato con “Paradise Now”, che racconta l’apprendistato di due potenziali kamikaze palestinesi. E dal 1992 aveva diretto film e documentari.
Any Abu Assad è un regista coltissimo. Nelle sue opere convivono estrema modernità ed estremo attaccamento alle radici. Per questo il suo protagonista “Omar”, interpretato da Adam Bakri, non può lasciare indifferenti. La sua incarnazione di una gioventù violentata dal conflitto è così profonda da spingere qualcuno ad andarsene. Ma solo chi non è abituato a interrogarsi, perché in realtà “Omar” non vuole torturare lo spettatore come l’osannato “Valzer con Bashir” dell’israeliano Ari Folman.
“Omar” è un film essenziale, che scorre ora con delicatezza ora con forza, ora con gioia ora con dolore, come l’età del protagonista e dei suoi amici. Ed è un thriller imprevedibile, contaminato di riferimenti letterari e visivi. Una rara bellezza, da contrapporre a “La grande bellezza” del nostro Sorrentino, che Abu Assad ha detto di aver apprezzato per la musica, la fotografia, ma “non per la decadenza”.
“Mi hanno stancato i film sul nulla come ‘Melancholia’ di Lars von Trier”, ha aggiunto. In effetti, quando la mattina dopo incontro Any Abu Assad per questa intervista esclusiva a Caratteri Liberi, da vicino mi si mostra come un combattente; un titano che sa raccontare la leggerezza, un ciclope dagli occhi stanchi che ha conosciuto la depressione ma ha lottato per uscirne, una persona gentile che sa comunicare speranza.
Dopo aver visto “Omar” in anteprima ho pensato: c’è qualcosa della fiction capolavoro Usa “Homeland”, ma soprattutto c’è umanità espressa in onestà e coraggio. Forse non ha vinto l’Oscar al miglior film straniero per questa ragione, mentre “La grande bellezza” di Sorrentino nasconde la verità dietro una pesante quantità di stereotipi.
E’ gentile a dire queste cose e spero sia vero, anche se non ne sono sicuro. Non posso giudicare me stesso. La gente di solito tende a credersi migliore di quello che è. Certamente, pero, ho sempre cercato di essere il più possibile onesto e coraggioso. Diventarlo al cento per cento sarebbe impossibile.
Quindi, non ha avuto paura, neanche per un istante, di scrivere quel finale per “Omar”?
Quel finale mi addolora e mi rende orgoglioso al tempo stesso. So che se fossi stato meno onesto e più codardo avrei ottenuto di più dalla vita. La gente mi avrebbe accettato di più. Sarei diventato parte del sistema e avrei raggiunto più traguardi. Eppure, nonostante la tensione che mi ha procurato questa consapevolezza, ho deciso di pagare un alto prezzo: rinunciare a più soldi e cose materiali per non perdere me stesso. Quando lotti per la tua libertà devi pagarne il prezzo. La lotta per la libertà vale più della mia vita.
Deve essere stato difficile. Dove ha trovato la forza?
Ha completamente ragione. Sono stato e sono ancora stanco. Come le dicevo prima, ho pagato un prezzo alto. Alcuni miei progetti non sono andati in porto. Dei riconoscimenti non sono arrivati. La distribuzione dei mie film ha incontrato ostacoli (non si sa ancora quando “Omar” verrà distribuito in Italia, ndr.). In realtà, non posso essere più preciso nel fare esempi perché non voglio ferire nessuno.
Durante la produzione di “Paradise Now”, il suo precedente e più noto film, ha vissuto una tragedia reale nella tragedia che stava filmando. Una mina è esplosa vicino al set. Un elicottero israeliano ha lanciato un missile sempre a pochi metri da voi, spingendo sei membri della crew ad andarsene. E il location manager è stato rapito da un gruppo palestinese, venendo liberato solo dopo l’intervento di Yasser Arafat.
Sì. Fa tutto parte delle pressioni che ho subito nel mio lavoro. La pressione è stata il prezzo alto di cui le parlavo. Ma ho scelto di continuare, perché preferisco essere stanco piuttosto che cinico.
Lei e “Omar” mi ricordate un altro candidato all’Oscar che intervistai nel 2008, Juan Carlos Tabío, il regista cubano che in “Fragola e Cioccolato” ha raccontato come in mancanza di libertà e all’interno di una manipolazione di massa, si arrivi a tradire il vicino di casa, l’amico.
Conosco l’opera di Tabío. È così. I regimi oppressivi usano la manipolazione, le spie, la diffusione del sospetto, per restringere e paralizzare la società. Non solo in Israele, ma ovunque nel mondo.
Un altro aspetto originale, che lei per primo ha rappresentato in modo così chiaro, è che fra gli oppressi si è disposti a tradire per ottenere un visto per l’estero, per la libertà. In “Omar” un personaggio palestinese non riesce a resistere alla tentazione di collaborare con le spie israeliane.
C’è qualcosa di penoso, ma anche di comico in questo. Mi sono domandato come fanno i traditori a convivere con il loro tradimento una volta che hanno ottenuto ciò che volevano. È un argomento interessante da esplorare.
Perché nel 1980, a 19 anni, si trasferì in Olanda?
Semplicemente: mio zio viveva lì e mi trovò un posto dove studiare ingegneria aeronautica.
I protagonisti dei suoi film sono quasi sempre giovani. Perché?
C’è sempre qualcosa di autobiografico in loro, ma non tutto. In particolare, nel personaggio di Omar c’è la paranoia che mi ha fatto ammalare durante la produzione di “Paradise Now”. Pensavo continuamente che ci fossero delle spie tra noi. Inoltre, sono cresciuto in una società dove mi dicevano senza sosta di non fidarmi di nessuno.
Com’è stata la sua giovinezza a Nazaret?
In parte ero felice, in parte ero triste, anche molto triste, quando mio padre litigava con mia madre, quando i miei voti non erano buoni, quando uno dei miei migliori amici mi tradì. Ma sono anche stato circondato da amore. Solo in un momento, quando i soldati israeliani mi umiliarono pesantemente, pensai di reagire in modo violento. Vorrei, però, chiarire quella frase che mi è stata attribuita dai mass media dopo “Paradise Now”: non ho detto che sarei potuto diventare anch’io un kamikaze tout court, ma solo se avessi vissuto quella situazione raccontata nel film.
E tra i suoi amici ci sono stati dei ragazzi palestinesi combattenti o dei soldati israeliani?
Non ci sono stati soldati israeliani. Tuttora, invece, conosco dei combattenti palestinesi per la libertà che ammiro molto.
E’ religioso?
No, no.
Laico?
…sì, totalmente laico.
Perché è tornato a Nazaret, dopo tanto tempo?
In questo momento, a 52 anni, sento che l’unico posto dove posso costruire qualcosa è Nazaret. Da ragazzo cercavo le feste e le discoteche, poi un luogo per lo studio, e infine uno per lavorare. Ma adesso ho bisogno di costruire una casa. Ho una fidanzata, di cui mi sono innamorato in Italia e che probabilmente sposerò presto, quattro fratelli, una sorella, mia madre.
Cosa spera per il futuro della Palestina?
Che tutte le persone divengano uguali davanti alla legge, che non ci siano differenze fra ebrei, musulmani, cristiani, arabo-israeliani, e che essi possano convivere in pace.
Dall’esterno si ha l’impressione che i pacifisti (palestinesi, come Ayed Morrar, o israeliani) siano rari. È così?
No. La maggior parte della gente comune non vuole la violenza. E’ il sistema che spinge al conflitto e al fanatismo. E’ il sistema che detiene il potere che corrompe. Come anche qui in Italia, del resto.
Dunque, come si fa a restare puri?
Io non sono innocente. Ho peccato, ma mi sforzo di essere onesto.
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