È l’unica occidentale che cammina per le vie di Kabul senza paura. I bambini di strada la chiamano per nome. I soldati le sorridono.
Nancy Hatch Dupree, 85 anni e originaria della Carolina del Nord, da 50 vive in Afghanistan, eccetto un periodo di esilio durante l’invasione sovietica oltre il confine pachistano, dove ha mantenuto la sua seconda casa. Massima esperta del tessuto artistico e culturale del Paese asiatico, ha realizzato le principali guide su questo bellissimo luogo bistrattato del mondo. Con il marito Louis Dupree, antropologo e archeologo che scrisse il primo libro di storia e cultura afgana, ha creato la Fondazione che porta i loro nomi cercando di preservare l’immenso patrimonio di una terra afflitta da trent’anni di guerre. Nancy svela a east un Afghanistan sconosciuto, ignorato e ferito nei suoi valori più profondi e nella sua dignità.
Quali sono i suoi primi ricordi dell’Afghanistan?
Cinquant’anni fa Kabul era una bella cittadina che sonnecchiava dietro mura di fango avvolte da roseti rampicanti. C’era una comunità diplomatica ristretta, ma socialmente molto vivace. Le élite afgane erano urbanizzate: donne e uomini sofisticati, vestiti impeccabilmente secondo la moda europea e che parlavano perfettamente inglese, francese e tedesco. Incontravo queste persone di frequente durante le riunioni ufficiali. Ricordo ristoranti ricercati, un nightclub con mura ricoperte di broccato, vari circoli, un ritrovo per sciatori e una pista da bowling. Molti di noi andavano spesso a cavalcare.
Una Kabul mondana in cui erano celebri i suoi party delle cinque.
Trascorrevo la maggior parte del tempo scrivendo guide per l’Organizzazione del Turismo Afgana, che mi diede la possibilità di fare esperienze meravigliose con studiosi afgani. Poiché Louis ed io lavoravamo nella nostra residenza, ricevevamo visite solo su appuntamento. Per farci perdonare di questo comportamento, che era davvero scortese per l’etichetta afgana, alle cinque in punto aprivamo le porte a tutti.
Quali cambiamenti ci sono stati da quella “Belle Époque” afgana?
Quando arrivai, nel 1962, Kabul aveva circa 500mila abitanti. Oggi si stima che siano 5 milioni. Ci sono molti problemi che allora non esistevano. Il traffico è insostenibile. Molto di ciò che è andato distrutto dalle guerre viene rimpiazzato con edifici a torre, a più piani o dai vetri blu e verdi. Il rafforzamento delle misure di sicurezza è una seccatura. La comunità straniera si è ingigantita e vive dietro barricate di cemento e filo elettrificato, per uscire dalle quali deve chiedere il permesso. Molte strade sono chiuse alla circolazione. E’ ora che gli afgani riprendano il controllo della loro città e della loro integrità.
E nelle aree rurali?
Dato che in campagna sono state costruite nuove strade, i capoluoghi di provincia sono in piena espansione. Per la loro esperienza di rifugiati, gli abitanti delle zone rurali sono più informati sulla politica. Il cambiamento più sorprendente è arrivato con l’esplosione delle comunicazioni. Quasi ogni afgano ha un cellulare sia in città che in campagna. Le stazioni radiofoniche sono sparse in abbondanza per le province. Ciò significa che l’isolamento cui erano sottoposte le comunità contadine non è più così rigido. Con le persone in contatto fra loro il Paese è più unito. Lo spettacolo televisivo “Afghan Star” (una sorta di “X Factor” afgano, ndr.), alla sua quinta stagione, riunisce davanti alla TV milioni di spettatori. E’ riconosciuto come il principale fattore di unificazione dei gruppi etnici, in cui giovani uomini e donne gareggiano insieme sullo stesso palcoscenico.
Lei è convinta che i libri possano aiutare a ricostruire questa nazione. Come?
Il bene più prezioso per gli afgani è la loro gente. Hanno dimostrato un’eccezionale capacità di ripresa in questi anni di disordini e hanno escogitato ogni sorta di meccanismo per sopravvivere nel mezzo dei conflitti. Consentendo loro l’accesso alla conoscenza, possono raggiungere con le loro forze molti obiettivi di sviluppo senza diventare dipendenti da chi viene da fuori. La grande sfida è trovare le vie attraverso cui queste voci possano essere ascoltate nelle tribune politiche locali, così che i valori afgani, e non quelli imposti dall’Occidente, prevalgano.
La sua Fondazione come agisce in tal senso?
Il progetto della libreria mobile dell’ACKU che noi sosteniamo, distribuisce libri alle comunità, ai licei e ai consigli provinciali. La gente, spesso, sottovaluta l’importanza del nostro invio di libri per via del basso tasso di alfabetismo (la stima più alta è del 28 per cento, ma si abbassa notevolmente in alcune aree rurali e soprattutto fra le donne). Tuttavia, il 28 per cento di una popolazione di 32 milioni di abitanti è già un grande pubblico. E anche gli afgani che non sanno leggere adorano ascoltare le letture, rifacendosi alla loro tradizione orale. L’obiettivo del nostro programma “Able” è di implementare l’abitudine alla lettura e di essere sostenibile (adeguato alla realtà locale, ndr.). I progetti di istruzione primaria e agli adulti sono quasi sempre una perdita di tempo e di soldi perché ai diplomati non viene dato niente da leggere, così che presto dimenticano come si fa. In questo momento storico la mancanza di sostenibilità è uno dei più grandi errori degli aiuti all’Afghanistan, in tutti i settori.
Ha combattuto tutta la vita per preservare la cultura e l’arte afgane. Quali sono oggi le principali minacce al suo lavoro?
Questo Paese è ricchissimo di siti archeologici. Siccome è impossibile far presidiare tutte queste zone dalla polizia, saccheggi e razzie sono diventati grandi minacce in un contesto di guerra in cui è una mafia a gestire il commercio di oggetti artistici rubati. Questa mafia è persino più estesa e pericolosa di quella che controlla il traffico di droga. La vera sfida è far capire alle comunità quanto siano importanti i siti vicino a cui vivono affinché li proteggano. Al momento, però, gli afgani non conoscono ancora abbastanza bene la loro storia, dato che a scuola è insegnata in modo sommario. Qui la cultura non è una priorità. Gli afgani che stanno ritornando dall’esilio non conoscono le loro radici culturali. Tendono più ad abbattere gli edifici antichi e a sostituirli con architetture moderne, molte delle quali assolutamente grottesche.
Cosa provò quando il Museo Nazionale di Kabul, di cui aveva realizzato la guida, fu saccheggiato dopo i bombardamenti del ‘93? Erano i tempi della guerra fra diverse fazioni di mujaheddin per il controllo della capitale.
E’ stato il momento più buio per me. Nessuno, tranne gli studiosi, si preoccupò. Persino l’UNESCO in pratica non si pronunciò. Mi si spezzò il cuore vedendo il personale del museo raccogliere ogni piccolo frammento delle statue e dei manufatti. Quando i mujaheddin erano al potere a Kabul, avevo detto al comandante Ahmed Shah Massoud (leader dell’Alleanza del Nord contro i talebani ucciso il 9 settembre 2001, ndr.): “Guardi, le collezioni del museo sono a rischio. E’ possibile che consideri di inviarle fuori dal Paese affinché siano tenute al sicuro?”. E lui rispose: “Personalmente penso che sarebbe una buona idea, ma come uomo politico non posso farlo. I miei oppositori direbbero che ho venduto queste opere per il mio tornaconto”.
Ha realizzato una guida anche sul sito di Bamiyan, dove furono fatti esplodere i due Buddha giganti. Ci spiega il significato di questa azione dei talebani?
Furono i più radicali, affiliati ad al-Qaeda, a distruggere i Buddha. Il capo dei talebani afgani, il Mullah Omar, aveva emesso diverse fatwa a difesa del sito. Gli attentatori non erano afgani, parlavano l’urdu (lingua ufficiale del Pakistan, ndr.) e l’arabo.
I media sostengono che è solo a causa dei talebani che le donne afgane vengono discriminate. E’ d’accordo?
Ovviamente l’universo femminile afgano non è violato solo per colpa dei talebani. Questi ultimi strumentalizzano vecchi costumi patriarcali. Ne fanno un uso politico.
Cosa rappresenta il burqa nella società afgana?
Non era presente nella cultura dell’Islam delle origini. Lo si incontra durante la prima rapida diffusione dell’Islam in Oriente. All’inizio fu adottato come simbolo elitario per distinguere l’aristocrazia dalle masse comuni. Questa usanza è stata tramandata ai giorni nostri alle donne delle comunità rurali, che quando si recano in città indossano il velo come segno della loro raffinatezza. Nei centri urbani, invece, è visto come un modo di proteggere l’onore delle donne in pubblico. Spose e figlie simboleggiano l’onore della famiglia e quest’ultima è la più importante istituzione per gli afgani.
Quali sono i principali valori della cultura afgana che l’Occidente non conosce?
L’onore, il rispetto per i genitori, i fratelli, gli anziani e le donne, la lealtà verso gli amici, il disprezzo dell’ostentazione, l’osservanza di regole precise dettate da un’etichetta e l’ospitalità.
Ha stampato e distribuito nei villaggi molte copie della nuova Costituzione. Il sistema legislativo afgano continua a essere, però, controverso e discriminatorio. Cosa pensa del diritto di famiglia che di recente ha legalizzato lo stupro?
Le Costituzioni afgane del passato hanno preso a modello quelle occidentali. A partire dagli anni Venti le élite al potere le hanno mantenute senza adattarle alla struttura sociale afgana, perché volevano l’approvazione degli stranieri. Ultimamente non c’è stata affatto la legalizzazione dello stupro: il trambusto intorno alla Legge Sciita è stato gonfiato in modo esagerato. Il vero problema è che esistono contemporaneamente tre tipi di legge: occidentale (basata sulle convenzioni Onu), islamica e consuetudinaria. La sfida è trovare un punto di incontro.
Com’è vivere in guerra e in un territorio militarizzato?
Non sono soggetta alle restrizioni imposte agli altri stranieri. Mi muovo liberamente, maledicendo ciò che la paranoia degli altri ha fatto alla mia città.
Esportare la democrazia è uguale a imporre una diversa cultura?
Non si dovrebbe rimodellare in una notte una società che ha vissuto a suo modo per secoli. Finora solo l’ossatura della democrazia è stata impiantata. La gente sa come votare, ma non perché. I principi democratici basilari sono già presenti nella cultura afgana, ma una più ampia conoscenza è necessaria affinché funzionino. Molti elettori sono impazienti di esercitare i loro diritti, ma devono imparare meglio gli obblighi reciproci che la democrazia richiede. L’idea che l’Esecutivo sia lì per servire e non per governare deve ancora tramontare. A causa dei brogli nelle recenti elezioni, si sta facendo largo soprattutto fra i giovani il bisogno comune di un buon governo e di un’economia funzionale alla democrazia. Servono, però, riforme giudiziarie, senza le quali non ci può essere un progresso sostenibile.
La nuova strategia di Obama per l’Afghanistan (più soldati e guerra ai talebani in Pakistan) com’è stata percepita dalla popolazione?
Il Paese sta lottando per emergere da trent’anni di guerre con la sua identità intatta. I Paesi “amici” riconoscono che contare sulle soluzioni militari per risolvere i problemi sociali ed economici è stato fallimentare. La loro retorica chiede di ascoltare gli afgani e di dar loro il comando. Questi discorsi sono giusti, anche se le azioni smentiscono le parole. Sacrosanti principi per uno sviluppo di base vengono ignorati, così come le lezioni del passato. Vecchi errori indossano nuovi abiti. Ancora una volta ci si focalizza sui massicci invii di corpi stranieri che stanno sperperando troppi soldi in progetti pensati da outsider. Ciò può portare l’Afghanistan solo all’orrore della dipendenza, minando l’onore di questo Paese. Il fatto più preoccupante è che la mentalità militare continua a prevalere. Se si andrà avanti così, si creerà un bel pantano.
Non ha mai avuto paura o pensato di lasciare definitivamente l’Afghanistan?
Quando sono in difficoltà la gente accorre ad aiutarmi. E’ stato così anche quando i Talebani erano al potere e viaggiavo attraverso il Paese. Gli afgani sono calorosi e riconoscenti, e non si vergognano di mostrarlo. Mio padre diceva che ero venuta qui per evitare di fare un lavoro vero. Non voglio che ACKU dipenda da me, ma che gli afgani se ne possano occupare. Un giorno dovrò tornare a ordinare le montagne di appunti lasciate nel mio attico di Durham, in Carolina del Nord. Non sono più a mio agio nei costumi americani, ma dovrò adattarmi.
Cosa spera per il futuro?
Buon Dio! Ho già troppa carne sul fuoco. Ogni volta che intravedo nuovi progetti mi diverto a cominciarli, ma devo frenare l’entusiasmo per non essere impegnata oltre il limite delle mie forze. Per il futuro spero solo una cosa: pace per l’Afghanistan.
La “Louis and Nancy Hatch Dupree Foundation” è nata nel 2007 e sostiene l’Afghanistan Centre dell’Università di Kabul. Tutte le sue attività sono descritte nel sito www.dupreefoundation.org.