Con passo veloce entra nell’antico salone dove sono esposte alcune delle sue foto più note. I capelli bianchi illuminano il viso di ragazzo. Si muove invisibile e inconfondibile al tempo stesso. Con indosso jeans chiari e una camicia leggera saluta chi lo attende in completo blu. Sorride. I suoi occhi scuri scattano istantanee. È grato che tante persone, qui in Italia, siano interessate ai suoi racconti di sofferenza.
Per James Nachtwey, che a 63 anni è considerato il più grande fotoreporter contemporaneo, il maestro, l’erede di Henri Cartier-Bresson, la fotografia è un mezzo per ripudiare guerra e ingiustizie. Per tale ragione non si ferma mai. Quando lo risentiamo per questa intervista esclusiva, è appena tornato dai villaggi devastati del Giappone. Da qualche tempo vive tra New York e Bangkok, il cuore urbano dell’Asia, dove il lusso più estremo stride con la povertà della maggior parte delle persone. “Sono in mezzo all’alluvione”, dice, lui che è sempre al centro degli eventi che fanno la storia.
Dal 1980 ha documentato tutte le principali guerre e crisi umanitarie. E in questi 30 anni di lavoro, molti spesi come fotografo di riferimento di TIME, ha scelto il punto di vista della gente comune, di chi subisce e non ha una voce. Sarà per questo che le sue foto non solo hanno vinto i premi più prestigiosi, ma restano nella mente e nel cuore delle persone. Riescono in quello che è il suo principale obiettivo: generare compassione. In un universo giornalistico sempre più gridato, cinico, invaso dai diktat della pubblicità, Nachtwey si muove umilmente come un “servitore”.
Nel documentario del 2001 a lui dedicato e candidato agli Oscar, “War Photographer”, una commossa Christiane Amanpour, la giornalista più influente della CNN, lo definisce “un lupo solitario”, circondato da “un mistero”. In molti si chiedono come questo professionista riesca a elaborare tanto dolore per poterlo raccontare. Ci si domanda quale sia il percorso per diventare così brillanti, restando integri, semplici, senza filtri. La risposta è in un’incredibile determinazione e nel racconto molto personale che segue, addirittura sorprendente quando Nachtwey dice apertamente di essere stato un autodidatta, un giovane uomo che con pochi dollari un giorno è partito verso New York City.
Come ha trascorso la sua giovinezza prima di diventare fotoreporter?
La mia famiglia girava molto e ben presto ho cominciato a sentirmi senza radici. Al college di Dartmouth, nel New Hampshire, ho studiato scienze politiche, storia dell’arte e giocato a rugby. Dopo essermi laureato con la lode in una delle migliori scuole d’America, ho capito che la mia istruzione non era ancora iniziata. Sono salito su di una nave mercantile come lavapiatti, trascorrendo sei mesi in mare. Dopo aver viaggiato per un altro mezzo anno intorno all’Europa, ho deciso di studiare fotografia da solo, con l’obiettivo di diventare un reporter di guerra. Mi mantenevo guidando i camion di notte. Alla fine sono arrivati i primi lavori da freelance, anche se non erano sufficienti per vivere. Avevo però l’intenzione di lavorare sempre più duro per crescere come giornalista e ottenere un impiego in un quotidiano del New Messico. Quattro anni più tardi mi sono reso conto che avevo imparato tutto quello che potevo da quel giornale. Ho venduto le poche cose che possedevo e guidato il mio Maggiolino fino a New York City per cercare un lavoro in una rivista. Sei mesi dopo ero su un volo per Belfast per coprire la mia prima guerra.
Come ha scoperto questa sua passione per la fotografia?
Ciò che provo per la fotografia è cresciuto lentamente e in una fase abbastanza avanzata della mia vita. Ero uno studente universitario ai tempi della guerra in Vietnam e del Movimento Americano per i Diritti Civili. In questo periodo di rivolte sociali le foto sui giornali avevano un impatto profondo sulla coscienza della mia nazione e in particolare su di me. Il nostro esercito e i nostri leader politici dicevano una cosa, mentre i fotografi ne dicevano un’altra molto diversa. Io ho creduto ai fotografi. Ma anche milioni di altri americani. Non solo i fotoreporter documentavano la storia, ma ne influenzavano anche il corso degli eventi. Ho visto con i miei occhi che la fotografia aveva la capacità di creare consapevolezza sociale perché era un elemento essenziale nei processi di cambiamento. Quando ho deciso di diventare fotografo, desideravo essere parte di questa tradizione.
Da chi è stato ispirato?
Accanto ai fotografi che allora si occupavano di guerra e diritti civili, ho studiato i loro precursori. Poiché non avevo soldi, ogni giorno passavo il tempo tra gli scaffali delle librerie per guardare i volumi di fotografia senza avere la possibilità di comprarli. Era come frequentare un corso universitario gratuito. Nutrivo interessi vari: Atget, Alvarez Bravo, Koudelka, Evans, ma soprattutto Eugene Smith, Robert Frank, Cartier-Bresson e, tra i reporter di guerra, Larry Burrows. Non ho mai frequentato una scuola e non ho mai avuto un mentore, ma ho studiato con i più grandi maestri. La serie “I disastri della guerra” di Goya mi aveva colpito nel profondo. Questo pittore è il patriarca dei fotografi di guerra, pur avendo vissuto prima dell’invenzione della macchina fotografica.
È vero che in un primo momento è stato affascinato dalla guerra?
All’inizio la fotografia di guerra era l’unica cosa che mi interessasse. Fin da bambino ero stato attratto dalla guerra, ma durante il conflitto del Vietnam ho capito che non volevo combattere. Il mio forte interesse per l’arte e la pittura, inoltre, non era formale. Mi piacevano perché potevano far conoscere le tragedie e le sofferenze del mondo. Lo stesso vale per la fotografia: per me gli aspetti formali fini a se stessi sono la cosa che mi interessa di meno.
Cosa ha provato la prima volta in guerra?
Trovarmi in mezzo alla violenza incontrollata di Belfast e Derry è stato naturale. I dieci anni di duro lavoro e tirocinio che avevano preceduto questo mio primo battesimo di fuoco erano risultati una preparazione necessaria per poter dare un valido contributo. Avevo preso la decisione giusta su cosa fare nella vita.
A un certo punto lei ha voluto usare la fotografia come strumento per ripudiare la guerra.
È sempre stato così. Nella mia mente la sola vera fotografia di guerra è quella contro la guerra. Continuando a girare il mondo, anno dopo anno, da un conflitto all’altro, questo pensiero è diventato una convinzione sempre più profonda che ha forgiato ogni mio comportamento.
Lei ha conosciuto l’inferno in terra: dal genocidio del Ruanda alla mattanza di civili in Bosnia; dalla distruzione totale di Grozny in Cecenia al dolore delle vedove in Afghanistan. Si è mai sentito impotente?
La prima cosa che ho imparato, molto velocemente, è che qualunque storia io stia fotografando è molto, molto più grande di me. L’idea quindi di essere “potente” davanti a un’enorme tragedia o distruzione non mi può arrivare. Mi penso più come un servitore. Le emozioni più forti che provo tuttavia sono certamente potenti; così potenti che possono divenire un ostacolo, ma devo superarle per realizzare bene un reportage. Rabbia, angoscia, tristezza si fondono in un sentimento di indignazione che mi guida sul lavoro. Innanzitutto vorrei che i miei spettatori provassero, oltre l’indignazione, la compassione. Devo calibrare i miei sentimenti per guidare chi guarda dentro le mie opere. Cerco l’innegabile umanità in cui gli altri si possono riconoscere a uno stadio più profondo. È questo processo a erigere un ponte di comprensione.
Dove trova la forza per superare le difficoltà emotive, pratiche e fisiche che si incontrano in contesti drammatici?
La determinazione nasce da ciò che ci lega all’obiettivo: la progettualità. Quando la posta in gioco è così alta per tante persone non puoi voltare le spalle e andartene via.
Lei ha ammesso di non avere tempo libero o una vita privata perché la fotografia è tutta la sua vita. La solitudine è mai stata un ostacolo per lei? C’è un prezzo da pagare nel suo lavoro?
Non vorrei essere frainteso. La fotografia è solo il mezzo attraverso il quale svolgo il mio lavoro, che consiste appunto nel creare consapevolezza. Uso le immagini per appellarmi ai migliori istinti della gente. Il lavoro si prende tutto quello che ho. Riesco a malapena a stare al passo. Ogni sacrificio, però, è stato una libera decisione. Nessuno mi ha mai forzato. Ho amici molto cari, non sono solo. Ci sono delle cose che mi mancano, ma spero che il mio percorso sia ancora abbastanza lungo per raggiungerle. Sono in forma, in salute, molto motivato. E non potrei essere più grato per aver trovato un senso alla mia esistenza. È difficile chiedere di più.
È credente?
Credo nella gente. Tutto ciò che abbiamo è il rapporto fra noi e gli altri. Se riusciamo a scoprire il meglio in noi stessi e un modo per esternarlo, non sbaglieremo di molto.
Si impara qualcosa dalla guerra?
La guerra si trova sulla sponda più estrema dell’esistenza umana. Da essa emergono sia le persone peggiori che le migliori. Crudeltà, follia, sofferenza, passioni distruttive si manifestano in guerra ad un livello più elevato che in qualsiasi altra situazione. Ma ciò vale anche per coraggio, generosità e gentilezza. Queste ultime qualità umane, assieme a tolleranza, rispetto, compassione, perdóno, integrità, sono i valori che dovrebbero prevenire un nuovo conflitto.
La scrittrice e critica fotografica Susan Sontag ha scritto che “il dolore degli altri” è diventato uno spettacolo quotidiano a cui ci siamo abituati. Oggi la fotografia ha perso la grande influenza che ha avuto ai tempi del Vietnam?
Anche se sono stato testimone di molte guerre, conflitti e ingiustizie, non sono diventato cinico come suggeriscono le idee della signora Sontag. Non posso pensare che un giorno percepirò la sofferenza come uno spettacolo. C’è una dura realtà di cui stiamo diventando sempre più consapevoli, ma che non potremo mai accettare. Sono convinto che le persone intelligenti, con una coscienza, non smetteranno di preoccuparsi. I tempi cambiano. Le nostre capacità sono messe alla prova, ma continuiamo a evolvere. Dobbiamo imparare a elaborare in modo efficace la vasta quantità di informazioni cui possiamo accedere e ad agire di conseguenza. Darsi per vinti o abbandonarsi all’autocompiacimento non è un’opzione valida.
Oggigiorno è più complicato raccontare le guerre?
È sempre stato difficile. Alcune, poi, sono più complesse di altre. Molto dipende dall’accesso. Ad esempio, per i reporter stranieri, la guerra fra Iran e Iraq è stata praticamente impossibile da coprire, come del resto l’attuale crisi in Siria. Allo stesso tempo, la guerra in Libia è stata completamente aperta a dozzine di fotografi e giornalisti.
C’è una tendenza nella fotografia che si concentra sui dettagli più cruenti e sanguinosi dell’attualità o rende i conflitti epici e dotati di una loro bellezza. Come si evitano questi rischi?
Non sono d’accordo. La mia percezione, dal di dentro, è che le immagini più disturbanti non vengano mostrate al pubblico e che noi possiamo vedere solo un quadro bilanciato e aggiustato della guerra.
Perché lei, che si muove sempre da solo, come un cane sciolto, ha accettato di andare embedded in Iraq?
Il mio primo viaggio in Iraq non lo feci da embedded. Ho coperto il bombardamento di Baghdad e l’invasione dell’Iraq dall’interno della capitale irachena senza i soldati americani. Solo più tardi sono tornato a Baghdad per lavorare a una storia su di un singolo plotone statunitense che pattugliava la parte più ostile della città. Durante questo reportage fui ferito da una granata e il mio collega, Mike Weisskopf, perse la mano destra. Due anni dopo sono andato nuovamente in Iraq come embedded per raccontare una storia sulla medicina di guerra. In nessun caso ho subito censura o mi è stato detto cosa fare. Ero completamente libero, persino di documentare le più terribili conseguenze sulle truppe. Da allora, mi sono recato da embedded due volte in Afghanistan, dove ancora una volta non mi sono stati imposti limiti.
Ma c’è qualcosa di più che ci vuole dire…
Sì. I reportage sull’Iraq realizzati dagli embedded hanno cambiato la percezione della guerra della maggior parte degli americani. Questa campagna militare era cominciata con un consenso fortissimo, ma dopo pochi anni i sondaggi sono mutati drasticamente grazie alla continua copertura di notizie consentita dalla politica degli embedded. Che un’informazione libera sia indispensabile in una società libera è un principio che pesa sulle agende militari statunitensi. Questa stessa politica ha cambiato la percezione della guerra in Vietnam. In molti posti del pianeta tali principi sarebbero impensabili.
Da qualche anno si sta concentrando sempre più sulla povertà e temi ad essa legati. Ha realizzato un reportage sui malati di tubercolosi in diversi Paesi in via di sviluppo, come la Thailandia dove vive in certi periodi dell’anno.
Le malattie provocano persino più vittime e causano più sofferenza della guerra. Poiché influiscono sulla vita quotidiana di tante persone non attirano l’attenzione della maggior parte dei media. Molte malattie si possono prevenire e curare, e con maggiore attenzione a ricerca e sviluppo, ulteriori fondi e soprattutto più volontà politica, molta sofferenza e morte possono essere evitate. Per questo motivo ho deciso di dedicare il mio contributo alla TED conference e molti mesi di tempo per creare una campagna di pubblica consapevolezza sulle cause e gli effetti di XDR-TB, un ceppo di tubercolosi estremamente pericoloso che è stato causato in gran parte da cure inadeguate.
Immagini di essere di fronte a un pubblico di giovani: quali caratteristiche dovrebbe avere un ottimo fotoreporter?
Progettualità, perseveranza, ingegno, integrità, coraggio, compassione, ambizione. Usare la mente. Seguire il cuore.