Il viaggio ventennale dello scrittore David Rieff nelle crisi umanitarie e fra chi deve portare aiuto
David Rieff è un americano imponente di 60 anni con stivali da cowboy e occhi che non incrociano mai il tuo sguardo.
Ha scritto libri che squarciano il senso comune, divenendo uno degli spiriti critici più riconosciuti dei nostri giorni. Guerre, ma soprattutto crisi umanitarie, sono diventate l’oggetto delle sue indagini di scrittore e giornalista da ormai moltissimi anni. “Un giaciglio per la notte: Umanitarismo in crisi”, finito nel 2001, è uno dei testi più lucidi e analitici su quella che lui definisce la nuova ideologia del nostro tempo. Complicato, spigoloso, ma illuminante, attraversa con estremo realismo i conflitti di Bosnia, Ruanda, Kosovo, Afghanistan. Nell’ultimo decennio, segnato dalla morte della madre Susan Sontag, della quale Rieff ha raccontato con incredibile coraggio e dettagli gli ultimi giorni, lo scrittore ritorna nei luoghi disperati del pianeta con l’obiettivo di indagare in un nuovo libro la crisi alimentare globale. Quando lo incontriamo, in occasione del Festival di Internazionale, si prepara a partire per la Somalia afflitta dalla carestia. Per quest’intervista esclusiva sceglie uno dei caffè più rumorosi di Ferrara incurante del frastuono. E con il suo proverbiale distacco parla delle guerre giuste che si potevano fare (per esempio in Ruanda per fermare il genocidio) e di quelle sbagliate che si sono fatte, dell’azione umanitaria come palliativo alle sofferenze, della sua stima per gli operatori umanitari che lavorano bene e della sua strana natura di essere critico e ammiratore, dentro e fuori le cose, quasi percependo in sé stesso un’innata contraddizione.
Com’è nata la nuova ideologia dell’umanitarismo?
La comparsa dell’umanitarismo tra gli anni Settanta e Ottanta, e soprattutto la sua fioritura nei Novanta, sono legate al disincanto verso il comunismo. A essere coinvolte sono in particolare persone di sinistra e in generale giovani idealisti. I fondatori di organizzazioni umanitarie, come Medici Senza Frontiere, appartengono alla generazione del maggio del ‘68. L’umanitarismo ha riempito un vuoto. E’ stato un luogo dove poter nutrire un sentimento idealistico quando ci si è resi conto che il ’68 non aveva portato i cambiati sperati. L’umanitarismo, però, ha colmato anche un altro spazio. Con la privatizzazione del mondo dell’era di Margaret Thatcher si diffonde l’idea che i gruppi privati debbano occuparsi del sociale, mentre lo Stato ha un ruolo sempre più piccolo. La nascita delle Ong rispecchia questo spirito dei tempi.
Ma l’umanitarismo è ancora in crisi?
Non proprio. Quando nel 2001 scrissi che era in crisi intendevo due cose. Da una parte gli Stati più potenti stavano usando il prestigio delle operazioni umanitarie per i loro interessi; dall’altra l’azione umanitaria si stava mescolando al movimento dei diritti umani. Rispetto agli Stati, ormai è accaduto che si siano appropriati dei meriti di Ong e agenzie. Oggi la crisi riguarda il secondo problema, che si può spiegare con la creazione della Corte Penale Internazionale dell’Aja (Statuto di Roma del 1998, entrato in vigore nel 2002, ndr.). Gli operatori umanitari auspicano la difesa dei diritti umani, ma quest’ultima può compromettere il loro lavoro. Succede che, potendo essere usati come testimoni nei processi dell’Aja, non siano più benvoluti in certi territori.
Quali sono i principali difetti dell’umanitarismo?
L’utopia è sempre un difetto. L’umanitarismo, quindi, è negativo se è utopico. Nello specifico l’azione umanitaria presenta molte contraddizioni. Vuole rispettare le altre persone e gli altri luoghi, ma intervenendo secondo i suoi principi. L’umanitarismo non ha mai trovato una risposta al tipo di impero caritatevole che voleva essere. In epoca moderna le sue origini si rintracciano ai tempi del colonialismo europeo. Ora, però, non si può più parlare di colonialismo. Per definizione gli umanitari dovrebbero poter andare dove vogliono, in quanto non governativi, sulla base di bisogni primari e buone intenzioni. C’è una politica implicita nell’azione umanitaria e bisogna chiedersi se questa politica abbia senso. L’azione umanitaria ha effetti sulle guerre. Solo per il fatto di essere lì determina un cambiamento, magari positivo. Anche i gruppi che lavorano per i diritti umani esercitano una forma di azione politica. I migliori umanitari, tuttavia, sono quelli che hanno obiettivi modesti.
Si può dire che in un mondo ideale le Ong non dovrebbero esistere, perché dovrebbero essere i governi a occuparsi delle loro popolazioni?
Non mi interessa un mondo ideale. L’Italia è un Paese utopico, profondamente pacifico nella sua versione moderna. Alcuni qui e altrove credono che un mondo ideale sia possibile, ma non io. È vero, i governi rinunciano a prendersi cura delle loro genti, ma a volte lo fanno perché non ne hanno la capacità. Come la Somalia: non si può dire che abbia rinunciato, perché non ha alcuna amministrazione. Va bene sognare un mondo migliore, ma non bisogna criticare gli umanitari per quello che fanno. Un rappresentante della Croce Rossa in Ruanda, Philippe Gaillard, disse: ‘Il mio compito è di dare una dimensione umana, sempre e comunque insufficiente, a situazioni che non dovrebbero esistere’. Il compito degli umanitari non è di salvare il mondo o di renderlo migliore. Come affermava Sadako Ogata, ex Alto Commissario Onu per i rifugiati, non esistono soluzioni di tipo umanitario a problemi umanitari.
Tra il 1992 e il 2001 è stato reporter di guerra in Bosnia, Kosovo, Ruanda, Afghanistan. Come ha trascorso, invece, gli ultimi dieci anni?
Nel 2003 e 2004 ero in Iraq. Poi sono tornato in Congo. Adesso forse sono troppo vecchio per occuparmi delle guerre. Mi interessano di più le questioni umanitarie. A novembre andrò a Mogadiscio perché sto scrivendo un libro sulla crisi alimentare globale. Negli ultimi tre anni sono stato in India, Cina, Brasile, Messico per indagare sulla malnutrizione cronica. Dopo essermi concentrato per 15 anni sugli interventi umanitari di emergenza, per me è stato logico analizzare quelli dedicati allo sviluppo.
Siamo 7 miliardi nel mondo e una persona su 7 non ha da mangiare, ma abbiamo una percezione strana delle crisi umanitarie. A volte ci si appassiona ad alcune cause che, seppur nella loro gravità, sono meno estese di altre. Per esempio la Palestina: 8mila persone sono state uccise nelle due Intifada, mentre in Congo c’è stato un milione di vittime. In ogni città europea riesci a trovare in un minuto 10mila giovani che manifestino contro Israele, ma solo un centinaio di non congolesi per la causa del Congo.
È anche colpa dei media?
Non sono così potenti o, meglio, lo divengono quando c’è già un contesto a loro favorevole.
Lei ha scritto che la democrazia senza giustizia economica è solo un privilegio di cui pochi possono godere. Migliaia di disperati sono arrivati sulle nostre coste. In diversi Paesi arabi ci sono disordini e violenze. Non le sembra che media e politici stiano dando un’enfasi troppo positiva alla “Primavera Araba”?
Ogni rivoluzione produce insicurezza e quindi migrazioni. Ma qualcosa di molto importante sta accadendo, impensabile solo poco tempo fa. La Primavera Araba, tuttavia, non deve lasciar cadere le sue promesse. È anche vero che spesso le rivoluzioni falliscono, come quelle che ci furono in vari Paesi, dall’Ungheria alla Francia nel 1848. La stessa Primavera Araba potrebbe fallire se ai poveri non sarà garantita una vita migliore.
Ha scritto: “I migranti che arrivano a Lampedusa sono fantasmi seduti al banchetto della democrazia”. La distinzione fra migranti e richiedenti asilo, messa in atto dall’UNHCR non rischia di discriminare i primi rispetto ai secondi?
E’ una questione di legge. L’UNHCR agisce secondo il diritto internazionale. Non è responsabile perché ha derivato questa autorità dalla Convenzione di Ginevra sui Rifugiati del 1951. È quest’ultima ad aver creato molti problemi. Per esempio non contempla gli sfollati. Se c’è una distinzione ufficiale fra migranti e rifugiati politici? Sì e no. La maggior parte dei migranti non è alla fame. È un mito romantico. Una fantasia sentimentale: i migranti a volte sono i membri con più energie, ardore e istruzione della loro società. Sanno come andarsene e di solito lo fanno per garantirsi un’istruzione o per insicurezza sociale. La gente alla fame non prende una barca. C’è persino una visione anti-migranti nel Sud del mondo: qui la gente si lamenta perché i più talentuosi e istruiti invece di stare a casa, lasciano gli ospedali senza dottori e le scuole senza insegnanti per andare nel Nord dell’emisfero.
In Libia è in corso l’ultima guerra umanitaria. L’intervento militare occidentale sembra essere stato deciso più per motivi politici ed economici che umanitari. Ciò che accade in Libia ricorda il Kosovo?
E’ una storia complicata. Sono stato contro l’intervento libico. Poteva essere giusta la prima operazione per proteggere i civili di Bengasi, ma poi – raggiunto l’obiettivo umanitario – le azioni militari straniere avrebbero dovuto fermarsi. Non condivido le guerre esterne per rovesciare le dittature. I grandi poteri hanno usato il pretesto dell’umanitarismo per intervenire o per non farlo. In Bosnia, dove si sono registrati 250mila morti e milioni di deportati, dissero: ‘Non possiamo intervenire militarmente perché blocheremmo lo sforzo umanitario’. In Kosovo è accaduto l’opposto. Non fu una crisi umanitaria – come sostennero- ma politica, perché la deportazione di massa degli albanesi cominciò solo dopo l’inizio della guerra. Alla fine nel 1999 vollero liberarsi di Milosevic perché capirono che minacciava il buon ordine dell’Europa.
Secondo gli osservatori, la guerra in Afghanistan, che ha assunto connotazioni umanitarie col motto “salviamo gli afgani dai talebani”, non sta portando i risultati sperati. È un fallimento?
All’inizio ho appoggiato l’intervento, perché pensavo che spettasse di diritto agli americani di combattere contro chi li aveva colpiti durante l’11 settembre 2001. C’era una sorta di fusione fra Osama Bin Laden e il Mullah Omar (capo di Stato afgano fra il 1996 e il 2001, ndr.). Dieci anni dopo, però, penso che i soldati statunitensi non sarebbero dovuti rimanere. Non spetta agli Usa decidere chi deve governare in Afghanistan. Non si può ancora dire se la seconda parte della guerra sia stata un fallimento, ma sicuramente per me ha rappresentato un errore.
Di questi tempi una guerra giusta è ancora possibile?
Certo. Non sono italiano e quindi non sono pacifista! Il pacifismo non è universale. Non è un’opinione ma un fatto. Non credo nel pacifismo perché ci sono molte guerre nel mondo.
Gli stessi operatori umanitari a Kabul ammettono che le Ong sono troppo distanti dalla popolazione, barricate dietro alti muri e filo spinato.
Non la vedo così. Il lavoro degli operatori umanitari è come qualsiasi altro. C’è gente corrotta o che pensa solo a far carriera come fra i giornalisti, gli avvocati o gli ingegneri. Sugli umanitari ci sono più aspettative che sulle altre categorie, ma ingiustamente. È vero che a Kabul c’è molto spreco, che molte persone ne approfittano, ma ce ne sono anche tante che fanno un buon lavoro.
È anche vero che nel mondo povero capita di vedere ospedali vuoti, giochi banali costati migliaia di euro, programmi scolastici abbandonati a metà. Non pensa che inefficienza e corruzione possano vanificare le intenzioni umanitarie?
Assolutamente sì. Bisogna però partire dal presupposto che gli operatori umanitari non possono cambiare il mondo. Non è giusto idealizzarli o demonizzarli. Ci può essere un 10 per cento che non funziona e un 90 per cento che ottiene buoni risultati. Un problema reale è che tutti possono diventare operatori umanitari. Basta raccogliere abbastanza soldi per avviare un programma da qualche parte. Le Ong, inoltre, non dovrebbero sostenere una parte politica, ma accade che tutte paghino tasse ai signori della guerra per lavorare sul territorio da loro controllato. Da ciò potremmo dire che tutte le Ong finanziano le guerre. Tuttavia, se un’agenzia venisse in Italia, non potrebbe dire che non paga le tasse perché non gradisce Berlusconi.
Qual è dunque il limite a un compromesso quando si lavora in un’area di crisi?
Non esiste una formula matematica. In generale si raggiunge il limite quando ti rendi conto che fai più male che bene. Spesso le Ong se ne vanno quando capiscono di contribuire più alle guerre che al benessere della gente. E’ successo nei campi di profughi ruandesi in Congo del 1994 (MSF e altre agenzie li lasciarono perché tra i profughi c’erano gli hutu, responsabili del genocidio dei tutsi, che si stavano riorganizzando, ndr.). Succede che le azioni umanitarie abbiano conseguenze negative, ma bisogna tener conto dei contesti in cui operano, che sono terribili. Il purismo è un’ambizione totalitaria. E non è detto che la vita pubblica sia migliore di quella privata.
Lei si sta occupando della malnutrizione in India, che colpisce il 47 per cento dei bambini, un tasso superiore di 18 punti rispetto a quello dell’Africa Subsahariana. Questo lato oscuro della democrazia indiana può considerarsi un tabù?
La gente ama gli slogan e le semplificazioni. Stanno emergendo nuove idee: l’America e l’Occidente sono finiti, mentre l’Oriente è in crescita. Se i mercati di India e Cina funzionano meglio di quelli di America, Europa e Giappone, che invece sono piatti, non significa che le loro società stiano migliorando. Consumeranno solo di più. Le innovazioni tecnologiche americane continuano a essere incredibili. Guardate questo mio iphone: dieci anni fa non esisteva e oggi chiunque al mondo ne vuole uno. L’india conta una popolazione di un miliardo e 200mila individui, dei quali solo 300 milioni (un quarto) vivono secondo gli standard della classe media occidentale. Il governo non è interessato a prendere misure serie per il benessere della gente. La democrazia indiana deve ancora impegnarsi realmente in favore dei poveri. Questo tipo di impegno non c’è neppure in Cina. Al contrario si registra in Brasile e in Messico.
Ha detto che se non fosse diventato scrittore probabilmente avrebbe fatto l’operatore umanitario. Lo pensa ancora oggi?
Sì. Ammiro il mondo umanitario anche se si ritiene che ne sia un critico. La maggior parte degli operatori che conosco a MSF o Save the Children sanno molto bene quello che fanno.
Che legame ha al momento con Medici Senza Frontiere?
Viaggio con loro, scrivo dei contesti in cui operano, contribuisco regolarmente alle loro attività, come i dibattiti. Sono una sorta di strano insider/outsider.
Cosa consiglierebbe a un giovane reporter che vuole occuparsi di politica internazionale?
Questo è un momento davvero brutto per fare il reporter. Internet gli permette più facilmente di pubblicare, ma in generale paga molto poco. E’ una strada dura, perché devi farti da solo. Molti giovani pensano di essere già reporter la prima volta che prendono in mano una videocamera. Spesso è anche colpa delle scuole di giornalismo che li gasano in questo senso. Vorrei che le scuole di giornalismo fossero come quelle di medicina, in cui ti insegnano che il lavoro di medico è pieno di insoddisfazioni.