Intervista esclusiva al direttore dell’IPE, Institute of Public & Environmental Affairs di Pechino. Attraverso l’app Blue Map, l’ex giornalista Ma Jun è riuscito a far dialogare società civile e governo nella lotta per l’ambiente in Cina
Come un fiume carsico, è riuscito a erodere e plasmare un mondo che sembrava immutabile. Con la stessa pacatezza che esprime al telefono, da quasi venticinque anni Ma Jun lotta per l’ambiente in Cina, il maggior consumatore di carbone e il maggior responsabile dell’effetto serra. Classe 1968, Ma Jun è stato giornalista investigativo per l’autorevole quotidiano di Hong Kong, il South China Morning Post, e ha pubblicato nel 1999 il libro “China’s Water Crisis” ancora non tradotto in italiano, ma paragonato a “Silent Spring” della prima grande ambientalista statunitense, Rachel Carson. Come la Carson, in effetti, si è mosso da pioniere, riuscendo passo a passo, anno dopo anno, ad avviare il progetto di un database nazionale sull’inquinamento.
Trasparenza e partecipazione, ‘il modello Ma Jun’ di lotta per l’ambiente in Cina
La mappatura comincia prendere forma con la fondazione nel 2006 a Pechino dell’organizzazione non profit IPE, Institute of Public & Environmental Affairs, di cui è tuttora direttore. Due le linee guida: trasparenza e partecipazione pubblica. “Serve una diffusione maggiore dei dati e delle ricerche disponibili sull’inquinamento di acqua, aria e terra. E ciò può essere favorito dalle segnalazioni dei cittadini cinesi”, spiega Ma Jun.
Da questo pensiero nasce l’ultima invenzione dell’IPE, la Blue Map app , che consente di postare in tempo reale foto e testi attraverso i social media per segnalare danni ambientali o altri effetti contingenti dell’inquinamento. Ulteriore passo di questo circolo virtuoso è la ricezione delle informazioni da parte delle autorità competenti. In questo senso, Ma Jun e l’IPE sono riusciti nell’impresa storica di far dialogare società civile e governo cinese. Aggiunge l’ambientalista, definito su Time dall’attore hollywoodiano e attivista Edward Norton una delle 100 persone più influenti al mondo: “Il premier Li Keqiang (che ha promesso di far tornare blu i cieli cinesi, ndr.) e altri top leader hanno capito che la partecipazione pubblica è importante. Il governo non può risolvere il problema dell’inquinamento da solo. Ha bisogno del supporto della gente”.
Ma Jun, però, intravede ancora un lungo percorso davanti a sé. E’ cauto, nonostante i cambiamenti da lui stesso raccontati in questa intervista, che da Occidente – dove spira il vento negazionista di Trump – sembrano epocali. Fra questi, l’emendamento della legge sulla Protezione ambientale in favore della trasparenza e il database IPE che consente di conoscere i danni ambientali, affrontare i colpevoli (locali e stranieri, come nel caso di Apple, ma anche – agli azionisti – di praticare una finanza etica. Nato a Qingdao, una delle città costiere cresciute più rapidamente negli ultimi anni, sul quel mare Giallo spesso ricoperto da un tappeto di alghe, Ma Jun sa che bisogna saper aspettare e che l’imprevisto è sempre in agguato. Non nascondendo la sua stanchezza, parla a lungo, naturalmente tenace come quel corso d’acqua carsico che può creare ecosistemi inaspettati.
Alcuni studi accademici riportano che un terzo dei decessi è dovuto all’inquinamento atmosferico.
Ci può fare un quadro generale?
In Cina la sfida contro l’inquinamento è multipla e a vari livelli. Riguarda l’acqua, l’aria, le sorgenti e la terra. L’inquinamento atmosferico affligge l’80 per cento delle nostre città. Gli acquitrini sono sporchi e attraverso la catena alimentare si generano rischi per la salute pubblica.
In quali zone?
L’atmosfera è inquinata soprattutto nelle città orientali e costiere, ma anche nelle metropoli dell’ovest con tantissimi abitanti. Per esempio, la capitale dello Xinjang, Urumqi. Lo smog avvolge anche le città centrali e i loro dintorni. Sono rovinosamente contaminati i fiumi nel nord e i grandi laghi nel sud, per lo più da immissioni industriali, rifiuti urbani, e da sostanze come pesticidi e fertilizzanti utilizzati in agricoltura. In altre aree sono inquinati addirittura gli acquitrini.
Ciò può compromettere gravemente la salute pubblica cinese. Ve ne state occupando?
C’è bisogno di più ricerche e di maggiore trasparenza. Secondo alcune analisi ufficiali, l’inquinamento dell’aria avrebbe causato centinaia di migliaia di morti premature. Pochi anni fa, altre ricerche hanno stabilito per la prima volta un legame fra l’inquinamento idrico e l’aumento di alcune malattie, fra le quali il cancro.
In Occidente, ma anche a Taiwan, circolano voci sul fatto che gran parte del cibo in Cina sia contaminato. Pensa ci sia un fondo di verità?
La contaminazione alimentare non riguarda solamente la Cina, ma anche l’Occidente e le economie emergenti. Qui, il dato disponibile è che il 20 per cento delle terre agricole è inquinato. Per questo il governo negli ultimi tre anni ha lanciato un Piano d’azione in dieci punti.
Attraverso l’IPE e l’app Blue Map lei è riuscito a stabilire una relazione fra il governo e la società civile. Come?
E’ un fatto storico il riconoscimento da parte delle autorità centrali della “trasparenza ambientale” e della “pubblica partecipazione”. Quando fondammo l’IPE nel 2006, capimmo che era necessario allargare la partecipazione pubblica. In Cina, negli ultimi dieci anni, sì capito che è molto importante coinvolgere la gente nella lotta contro l’inquinamento e che i cittadini hanno il diritto di ricevere informazioni trasparenti sull’ambiente. Infatti, è stata migliorata la legislazione. Quando la Legge di protezione sull’ambiente è stata modificata nel 2013, è stato introdotto il capitolo 5 con il titolo “Trasparenza ambientale”. Solamente nel 2016 sono stati resi pubblici 71 casi di violazione dell’ambiente e nel 2017 saranno ancora di più. L’app Blue Mapp si inserisce in questo programma di trasparenza, consentendo ai cittadini di caricare la foto di un cielo nero o di un fiume sporco attraverso i social media, affinché le autorità competenti possano intervenire.
Lo scorso marzo il primo ministro Li Keqiang ha promesso di far tornare blu i cieli grigi della Cina. E’ stato forse inspirato dal suo lavoro e da quello di IPE?
Sin dal 2011, quando Li Keqiang era vice-premier, decise di monitorare e rendere pubblici i dati sull’inquinamento. In particolare, stabilì di controllare il PM 2.5 (il cosiddetto ‘particolato fine’ presente nel PM 10 o ‘particolato grossolano’, che comprende l’insieme delle particelle atmosferiche solide e liquide sospese in aria-ambiente. Come per il PM 10, queste particelle sono caratterizzate da lunghi tempi di permanenza in atmosfera ma, rispetto alle particelle grossolane, sono in grado di penetrare più in profondità nell’albero respiratorio umano, ndr.)
Una grande passo…
Da allora sempre più città hanno controllato e diffuso rapporti sul PM 2.5. Al momento ne contiamo 140 che si appoggiano a 3mila stazioni di monitoraggio. Ciò è molto importante per tutelare la salute pubblica: adesso sappiamo quando i bambini possono uscire e il sistema educativo può indicare di restare in casa se i livelli superano la soglia di guardia. Prima, le persone non potevano distinguere la nebbia dallo smog. Il premier Li Keqiang e altri top leader hanno capito che la partecipazione è importante. Il governo non può risolvere il problema dell’inquinamento da solo. Ha bisogno del supporto della gente.
Che cosa ostacola ancora la lotta contro l’inquinamento? Dal suo racconto emergono svolte positive, ma si intravede una lunga strada da percorrere.
Sì. In Cina la realtà è molto più complicata che altrove. L’inquinamento atmosferico non riguarda una sola città, come Los Angeles o Londra, o una sola fonte di emissioni. In molte città, in molte regioni, coesistono diversi livelli di sviluppo economico e diverse fonti di inquinamento. Un’urbanizzazione e un’industrializzazione massiccia sono tuttora in atto. Per esempio, bisogna fare i conti anche con l’inquinamento precedente questa fase. Serve coordinamento fra le varie zone. La sfida è stabilire e garantire l’applicazione della legge sull’ambiente. Bisogna rafforzare lo Stato di Diritto in materia e il sistema giudiziario, ovvero assicurare la pena per le aziende che inquinano.
Al tempo stesso, si sta sviluppando un ‘green business’? Di che tipo?
Si sta diffondendo la ricerca di energie rinnovabili, ma è ancora poco incisiva. si deve ancora far capire a chi trae profitti dal mercato tradizionale, quale enorme potenziale costituiscano non solo le rinnovabili, ma un modello generale di sviluppo ‘green’.
I concetti ‘sostenibile’ o ‘biologico’ stanno diventando comuni?
L’idea di uno sviluppo sostenibile è diffusa, ma il passo verso un mercato biologico non è ancora stato fatto. Prima, bisogna assicurare la sicurezza del cibo e dell’acqua potabile, cui la gente presta sempre più attenzione. Siamo ancora al punto in cui dobbiamo evitare che compaiano metalli pesanti negli alimenti.
Più volte accenna all’insufficienza di ricerche sulle conseguenze dell’inquinamento e di diffusione di quelle realizzate. L’IPE sta provando a colmare queste mancanze?
In realtà, adesso sono in corso tante ricerche sofisticate nelle università cinesi, ma mancano soprattutto indagini sui rischi per la salute.
Recentemente, c’è stato uno scambio delle parti. La Cina ha aderito all’accordo sul clima, mentre gli Stati Uniti dell’Amministrazione Trump vogliono uscirne. Come valuta questa situazione?
L’accordo COP21 di Parigi è una pietra miliare. La maggior parte dei Paesi del pianeta hanno deciso di unirsi. Non penso che questo accordo potesse essere raggiunto senza la firma e la collaborazione degli Stati Uniti. La Cina andrà avanti, ma la nuova posizione del governo Usa potrebbe causare un enorme sconvolgimento.
Trump nega persino il riscaldamento globale.
Penso che i Paesi più industrializzati – a livello storico – abbiano dei doveri verso quelli in via di sviluppo. Gli Stati Uniti hanno prodotto la maggior quantità di emissioni nella Storia globale dell’industrializzazione.
Lei iniziò come giornalista investigativo del South China Morning Post. Perché ha deciso di dedicarsi ai temi ambientali?
Viaggiando attraverso la Cina da reporter, ho avuto la possibilità di vedere diversi danni ambientali e di ascoltare le vittime di questi ultimi. In particolare, rimasi scioccato dall’inquinamento dei fiumi. Con i miei articoli attirai l’attenzione dei lettori, che cominciarono a sperare che io trovassi delle soluzioni.
Dove ha trovato la forza di lottare per vent’anni?
In una sfida come questa ci possono essere ostacoli enormi, ma al tempo stesso progressi minori che ci aiutano a proseguire. Il momento di essere preoccupato per i rischi del mio lavoro c’è stato ed è passato. Mi concentro sulle vittime. Non ho mai avuto il potere o i soldi sufficienti per vincere la sfida ambientale, ma l’unica cosa che posso fare per loro è continuare a lottare affinché le condizioni ambientali siano rese pubbliche ai cittadini in modo trasparente.
Aziende cinesi in Paesi poveri dell’Asia e dell’Africa sono accusate di sfruttamento eccessivo dell’ambiente e delle persone. Si sta occupando dei danni ambientali eventualmente provocati all’estero?
Sì. La Cina è un grande attore della globalizzazione. Da una parte opera all’estero, dall’altra subisce i danni ambientali provocati da varie compagnie nel suo territorio. Per questo, non dobbiamo permettere che quanto viene causato in patria, sia da noi ripetuto al di fuori. Dobbiamo aiutare le aziende a diventare responsabili. Serve una lista delle industrie che compiono violazioni ambientali in Cina, affinché gli azionisti possano spingere le stesse aziende a non commetterle in altri Paesi. I problemi sono seri. Alcuni danni non potranno essere riparati. Ma dobbiamo agire oggi, restando concentrati sul presente.
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