L’esodo forzato dei Rohingya è, nelle sue proporzioni, quello avvenuto più velocemente nella storia recente. A oggi si contano 607mila persone fuggite dal Myanmar in Bangladesh a partire dal 25 agosto 2017. La maggioranza degli esuli è composta da donne e bambini, e si aggiunge ad altri 307.500 profughi che hanno trovato un riparo d’emergenza in territorio bengalese nei mesi precedenti.
Quello che Human Rights Watch (e in seguito alcuni vertici ONU, come l’Alto Commissario per i Diritti Umani Zeid Ra‘ad al-Hussein e il Segretario Generale Antonio Guterres) ha denunciato per prima come “crimini contro l’umanità” e “pulizia etnica”, in un rapporto del 2013, rischia di essere completato a breve. Su un milione di musulmani Rohingya che vivevano nell’ex Birmania, più della metà sono già oltre confine. Nello stato Rakhine, una delle 14 divisioni amministrative dell’Unione del Myanmar, dove erano insediati da secoli, sono rimasti 120 mila sfollati rinchiusi in campi, senza possibilità di movimento, e altre migliaia di individui che continuano a subire le persecuzioni dei militari birmani, delle forze di sicurezza e di squadroni di civili rakhine.
L’inasprimento delle violenze risale al 2012, ma negli ultimi cinque anni le autorità birmane non hanno mai provato a fermare il pogrom. Al contrario, sembrano aver agito col fine di aggravare la crisi. Nel 2014 non hanno incluso i Rohingya nel primo censimento nazionale e hanno impedito loro di votare alle prime elezioni libere dell’aprile 2015. Sebbene la comunità internazionale abbia accolto con gioia la vittoria di Aung San Suu Kyi e del suo partito, Lega Nazionale per la Democrazia, i militari hanno mantenuto il controllo di quasi tutti i ministeri e il 25 per cento dei seggi in parlamento. Si è insediato un governo bicefalo, dove la “testa militare” prevarica su quella “civile” personificata dalla leader de facto Aung San Suu Kyi (consigliere di stato, ministro degli esteri, ministro dell’ufficio del presidente).
“The Lady”, come la chiamano comunemente i birmani, secondo la Costituzione del 2008 non può diventare presidente e potrebbe essere destituita con il suo governo in ogni momento dall’esercito, con la vaga formula “presenza di un pericolo reale per la stabilità del paese”. Per tali ragioni, si dice, non ha mai condannato le violenze contro i Rohingya e ha accusato media e ong di “esagerazioni”. Non si sarebbe esposta per salvare il governo civile fautore della transizione democratica, ma anche per non perdere il consenso dell’elettorato bamar buddista. Al tempo stesso, nel Rakhine, una delle zone più ricche di risorse del Myanmar, serve stabilità affinché rimangano attive le nuove zone economiche speciali, dove lavorano compagnie locali e straniere. Ancorata, forse, al traguardo ultimo della presidenza, ha finito per assecondare in diverse occasioni la versione dei militari. Ad esempio, Suu Kyi ha dichiarato che le operazioni militari contro i guerriglieri Rohingya dell’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa) si erano fermate il 5 settembre scorso e che non capiva perché tante persone fuggissero.
Come avvenuto per altri crimini contro l’umanità riconosciuti tardivamente, gli abusi di massa sono stati confermati da fonti non ufficiali. Le testimonianze degli esuli, le inchieste di operatori umanitari, i reportage dei giornalisti, le prove satellitari raccontano di uccisioni sommarie, villaggi rasi al suolo, stupri, sparizioni, arresti arbitrari, torture, maltrattamenti, espropriazioni, persone affamate e lasciate senza cure. Purtroppo, non sono disponibili numeri precisi su morti e feriti, perché l’accesso a osservatori indipendenti nel Rakhine è vietato o estremamente limitato dalla prima metà del 2014.
La situazione umanitaria è disperata. Attualmente solo la Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa (IFRC) può soccorrere i Rohingya in patria, anche se il suo segretario generale, Elhadj As Sy, ha detto che l’IFRC non può caricarsi sulle spalle un’intera crisi “che non ha precedenti per la gravità e molteplicità delle privazioni” cui sono soggetti gli sfollati e gli esuli. Oltre confine, nel Bangladesh che non ha firmato la convenzione sullo status di rifugiati del 1951, i soccorsi internazionali sono guidati dall’International Organization for Migration (IOM) e non dall’UNHCR, The UN Refugee Agency. Tutte le organizzazioni umanitarie accorse, tra le quali Medici Senza Frontiere, Comunità di Sant’Egidio, denunciano che i profughi hanno bisogno di tutto, cibo, acqua, cure, sostegno psicologico, mentre i campi si allargano a vista d’occhio e cresce il rischio di epidemie.
Phil Robertson di Human Rights Watch commenta così l’agenzia annunciata da Aung San Suu Kyi, lo scorso 19 ottobre, per soccorrere e rimpatriare i Rohingya: “Rientra nella campagna allargata del governo per controllare l’assistenza internazionale. Non è un segreto che lei voglia impedire al World Food Programme e all’UNHCR di operare direttamente sul terreno, dove non solo fornirebbero aiuto, ma conoscerebbero gli abusi perpetrati dalle forze di sicurezza birmane”. Sulla promessa di Suu Kyi di rimpatrio, Robertson insiste: “Vive in un mondo fantastico. Nessuno di questi profughi Rohingya tornerà in modo volontario dal Bangladesh se non otterrà una garanzia di protezione dal Tatmadaw, l’esercito birmano”. La Nobel per la Pace ha anche promesso che i colpevoli di violenze saranno puniti, ma in pochi le credono dato che fra i militari nessuno è mai stato processato e arrestato.
L’esodo biblico degli ultimi due mesi è cominciato dopo che gli insorti dell’Arsa, altrimenti detto Harakan al-Yaqin (HaY’s), lo scorso 25 agosto, hanno attaccato 30 postazioni della polizia e una base militare, uccidendo 12 persone con armi rudimentali. Tra i guerriglieri, 77 sono stati assassinati o catturati dai militari. Nonostante la provocazione dell’Arsa, che si è formato a ridosso delle violenze del 2012, è stata soprattutto la reazione eccessiva dell’esercito birmano contro i civili Rohingya a indurli alla fuga.
I militari e la stessa Aung San Suu Kyi definiscono “terroristi” i membri dell’Arsa, ma per vari analisti – come quelli dell’International Crisis Group – si tratta di un approccio sbagliato. Il loro portavoce, che si fa chiamare Ata Ullah, cresciuto in Arabia Saudita da padre immigrato Rohingya, non vuole che l’Arsa sia paragonato ad altri gruppi radicali islamici. I guerriglieri avrebbero ricevuto addestramento e supporto in vari Paesi della diaspora Rohingya, ma finora hanno perseguito obiettivi non legati al terrorismo jihadista transnazionale. Gli insorti hanno dichiarato di non voler colpire i civili pacifici birmani. Chiedono esclusivamente pieni diritti e autonomia per i Rohingya del Rakhine, non uno stato secessionista o islamico. Esiste, però, il rischio che se le autorità non fermeranno la spirale di violenze, fra i musulmani cresca il risentimento e il desiderio di radicalizzarsi. Alcuni jihadisti transnazionali potrebbero allora approfittare di questa crisi per i loro scopi nell’area.
In nome di un nazionalismo etnico-religioso che esalta la maggioranza bamar (più comunemente detta “birmana”) e buddista, i musulmani Rohingya sono sempre stati discriminati. In settant’anni di dittatura militare (1962-2012), si sono insediati a gruppi di migliaia nel frontaliero Bangladesh, in Malesia, Thailandia, Indonesia, India, Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Le autorità non hanno mai concesso loro la cittadinanza e garantito i diritti fondamentali. Una legge del 1982 li ha esclusi dalle 135 etnie che abitano tuttora una nazione multi-etnica, frutto di una lunga storia coloniale. Due grandi esodi forzati si erano già registrati nel 1978 (200mila profughi) e nel 1991(250mila).
Gli apolidi Rohingya, che l’ex giunta e la stessa Suu Kyi rifiutano di chiamare con il nome che si sono scelti, non sono “immigrati illegalmente” e “recentemente” dal Bangladesh. Vivono nel Rakhine da quando i colonizzatori portoghesi li deportarono come schiavi dal Delta del Bengala. Successivamente, furono i colonizzatori inglesi a incoraggiare le divisioni comunitarie. In India favorirono le separazioni fra indù e musulmani, mentre in Birmania (nome sostituito con Myanmar dalla giunta nel 1989) prepararono il terreno per una sorta di “Pakistan buddista”. I confini dell’attuale stato Rakhine (ex Arakan) sono mutati fino al 1948, quando la Birmania divenne indipendente.
La crisi dei Rohingya è esplosa durante la transizione dalla dittatura militare verso la democrazia. Dopo la liberazione nel 2010 di Aung San Suu Kyi, l’apertura al libero mercato e alcune prime riforme, sono aumentati gli attacchi razzisti contro i musulmani su incitazione di gruppi fondamentalisti buddisti. Il più influente è il MaBaTha, che predica l’odio settario in tutto il Paese. Uno dei suoi leader è il monaco Ashin Wirathu del monastero di Mandalay, già “capo spirituale” del movimento 969, che predica dagli anni ’90 la ghettizzazione dei musulmani ed è attualmente legato all’organizzazione nazionalista buddista Bodu Bala Sena dello Sri Lanka. Wirathu era stato incarcerato nel 2003 per i suoi sermoni anti-islamici, ma proprio nel 2012 fu liberato con la possibilità di riprendere la sua propaganda.
Come scriveva nel 2013 l’analista politico, di etnia karen, Greh Moo sul giornale di esuli“Democratic Voice of Burma”, il futuro dei Rohingya è stato escluso dai tavoli dei negoziati. Sebbene con tante difficoltà e conflitti ancora aperti, i militari hanno cercato un compromesso più o meno con tutte le minoranze. I falchi dell’ex giunta e i nazionalisti avrebbero, invece, pianificato di ignorare un milione di persone che non aveva alcuna voce e neppure un’organizzazione guerrigliera, abbastanza forte da controllare risorse, traffici e dotarsi di un apparato istituzionale.
“Il governo ha preso il rischio di liberare Aung San Suu Kyi dopo essersi assicurato che lei avrebbe potuto agire in modo limitato”, spiegò allora Greh Moo. “Ha sinceramente a cuore gli interessi di tutti, ma la politica ha sempre la meglio sulle intenzioni. Lei ora ribadisce di essere un politico, non un difensore dei diritti. Ma non può restare per sempre muta sull’intolleranza religiosa e sugli scontri settari. Questo problema deve essere risolto in modo non violento, con ragionevolezza, applicazione delle pene previste per chi incita al razzismo, altrimenti il Paese non sarà mai pacificato”. Quattro anni più tardi la situazione è degenerata. Tuttavia, si spera che la diplomazia torni protagonista all’interno del Myanmar e all’esterno, con i nuovi ambasciatori arrivati nell’ex Birmania durante la transizione democratica, il Consiglio di Sicurezza ONU, eventuali peacekeeper.
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