La biografia del Nobel Aung San Suu Kyi è legata con la storia dei genitori e del Myanmar (già Birmania). Fra nazionalismo, influenze occidentali e compromessi con l’esercito.
La biografia di Aung San Suu Kyi (acronimo Assk) è strettamente legata con quella della sua famiglia e con la storia del Myanmar (ex Birmania). Un percorso di luci, ombre, zone buie, fra nazionalismo, influenze occidentali e devozione all’esercito, fondato dal padre. Il suo concetto di democrazia, seppur sostenuto per circa vent’anni da forze dell’ovest del mondo, è radicato in Asia, dove i militari assumono spesso un ruolo preponderante. Anche la sua visione di nazione, mai realmente realizzata dopo l’indipendenza dai britannici (1948), non è scissa dalla religione di maggioranza, il buddismo theravada. Con queste premesse, è più facile capire perché la leader della lotta democratica birmana non corrisponda del tutto all’immagine di attivista diffusa dai nostri media e da lei recentemente respinta.
Il Myanmar è forse l’ultima frontiera asiatica per i business delle imprese straniere, in una posizione strategica fra India e Cina, suo maggiore partner economico. Anche qui si giocano gli equilibri internazionali. E lo sa bene Aung San Suu Kyi, liberata definitivamente dagli arresti domiciliari, proprio quando la giunta militare ha indossato abiti civili e si è aperta al neoliberismo. Da allora la cosiddetta “The Lady” non ha più contrastato i generali, neppure quando hanno compiuto una pulizia etnica contro i musulmani rohingya, costringendoli a fuggire in massa in Bangladesh. Per non scontentare l’elettorato bamar buddista e compromettere la parte civile del governo, ha negato quelli che l’Onu ha definito crimini contro l’umanità e di guerra. Per tanti birmani, bamar e delle minoranze, resta l’unico appiglio contro una dittatura totale. Tuttavia, quale politico che abbia a cuore i diritti fondamentali può assecondare chi li viola di continuo?
Erede designata. Infanzia e genitori
Aung San Suu Kyi nasce il 19 giugno 1945 a Rangoon, capitale della Birmania nel periodo coloniale britannico (1824-1948) e dall’indipendenza al 2006. Da un mese gli inglesi hanno riconquistato la città, che gli era stata strappata nel gennaio del 1942 dai nuovi invasori giapponesi. Il cosiddetto “giardino d’Oriente”, fondata nell’undicesimo secolo e dominata da antiche dinastie, presenta infrastrutture e servizi pubblici come quelli di Londra. In Europa il dittatore nazista Adolf Hitler si è arreso, mentre in Asia la fine della seconda guerra mondiale sta per essere dichiarata il successivo 2 settembre, con la sconfitta dell’impero nipponico.
Assk compie i primi passi assieme al suo Paese, che da colonia dell’impero britannico si sta incamminando verso la repubblica. A guidare questo processo è proprio suo padre Aung San, dal quale lei eredita non solo la prima parte del nome, ma anche l’ispirazione e l’ideologia che caratterizzeranno il suo futuro politico. Aung San viene ucciso quando Suu Kyi ha solo due anni. Tuttavia, la sua storia appare come quella di una figlia designata.
La madre Khin Kyi, politica e ambasciatrice
Probabilmente, è la madre Khin Kyi, a tenere viva la figura del padre in Assk fino all’età adulta, ma anche a trasmetterle direttamente la scienza e l’arte della politica. Khin Kyi, ex infermiera che aveva conosciuto il suo futuro sposo in ospedale durante la seconda guerra mondiale, è una donna tenace e istruita. Contro il volere della sua famiglia, lascia il suo villaggio e si trasferisce a Rangoon per fare pratica al General Hospital. E, a 30 anni, nel 1942 sposa Aung San, al quale aveva curato le ferite dei combattimenti. Il loro connubio è fortissimo. Avranno quattro figli e Khin Kyi occuperà il seggio del marito, rimasto vacante dopo il suo assassinio, nel primo parlamento della Birmania indipendente.
Khin Kyi, dopo la perdita del coniuge e di due bambini, intraprende una brillante carriera politica. Nel 1953 diventa il primo ministro birmano del social welfare. E nel 1960 è la prima donna del suo paese a capo di una missione diplomatica: ambasciatrice a Nuova Delhi quando il premier indiano è Jawaharlal Nehru. In India porta con sé proprio la figlia quindicenne Aung San Suu Kyi, mentre il figlio maggiore, Aung San Oo, va a studiare in Inghilterra. Nehru concede loro di vivere nella cosiddetta “Burma house”, oggi sede del congresso indiano.
Il padre Aung San, rivoluzionario, fondatore dell’esercito e “padre della nazione”
Torniamo ad Aung San, figura complessa e quasi mitologica in Birmania. Tuttora ritenuto il “padre della nazione” birmana, muore senza riuscire a realizzare del tutto la missione che si è dato. Aung San, nato nel febbraio 1915, potrebbe essere definito un “rivoluzionario pragmatico e camaleontico”, che cambia veste politica e alleati tendendo come perno il credo nazionalista e l’obiettivo di una Birmania libera dai britannici. Un paese che ancora non esiste, diviso in regni, dinastie, feudi, regioni abitate da moltissime etnie.
Aung San è allevato da una famiglia di rivoluzionari. Nel 1886 suo nonno era stato decapitato dagli inglesi, mentre combatteva nell’ultima delle tre guerre anglo-birmane. Anche i suoi genitori appartengono al movimento di resistenza ai colonizzatori. Negli anni Trenta è il leader più in vista degli studenti dell’università di Rangoon, teatro di diversi scioperi anti-imperialisti. Nel 1938 lascia gli studi in legge, per dedicarsi completamente alla politica. E nel 1939 è tra i fondatori dell’ala nazionalista del partito comunista della Birmania. Nel 1940, però, si rifugia in Giappone alleato dei nazifascisti, dove gli viene proposto un addestramento militare insieme con altri 29 compagni. La chiamano la “Brigata dei trenta”, della quale fa parte anche Ne Win, colui che con il golpe del 1962 rovescerà la fragile democrazia birmana per instaurare la dittatura militare. La stessa contro cui Aung Sa Suu Kyi si troverà a lottare mezzo secolo dopo.
Con la promessa di uno stato indipendente, Aung San collabora con i giapponesi per quasi tutta la durata del secondo conflitto mondiale. Grazie al loro appoggio, riesce a formare un esercito birmano indipendente a Bangkok, in Thailandia, la versione embrionale dell’attuale tatmadaw. Nel ’42 partecipa alla “campagna di Birmania”, che consente ai militari nipponici di invadere il paese e sostituirsi ai britannici. Aung San è nominato ministro della guerra, ma nel ’44 si rende conto che, per l’imperatore Hirohito, la Birmania è soltanto una nuova colonia da tiranneggiare. Ed ecco un ennesimo cambio di rotta. Il padre di Assk riprende i contatti con le autorità britanniche e i vecchi compagni comunisti. Il 27 marzo 1945 spinge l’esercito birmano contro i giapponesi e aiuta gli alleati europei a sconfiggerli.
Il momento è delicato. Il nuovo fronte comune anti-fascista, di cui è a capo, si spacca. I comunisti vengono espulsi. Le trattative con il Regno Unito sono complicate. La Birmania diventerebbe indipendente, ma rientrando nel Commonwealth (associazione delle ex colonie britanniche). Aung San non è d’accordo, chiede un’indipendenza completa. Winston Churchil lo definisce “ribelle traditore”. Ma il generale non sposta il suo obiettivo. Nella storica conferenza di Panglong, del 12 febbraio 1947, Aung San riunisce i capi delle etnie più numerose, convincendone una gran parte ad aderire all’Unione di Birmania. Tuttavia, è circondato da rivali e divisioni. I delegati Karen non si riconoscono nel nuovo Stato e si preparano alla guerriglia.
Ad aprile l’Anti-fascist people’s freedom league (Afpfl), epurata della sinistra radicale, vince le elezioni. Il governo che Aung San sta preparando, però, non vedrà mai la luce. Il 19 luglio 1947 un gruppo di paramilitari dell’ex premier U Saw uccidono lui, sette ministri, un segretario e una guardia. U Saw, condannato poi a morte, rappresentava il passato filo-britannico, sostenuto dall’ex governatore Sir Reginald Dorman-Smith. Aung San, invece, godeva dell’appoggio dell’allora governatore sir Hubert Hance e dell’ultimo viceré d’India, Lord Mounbatten. Il suo assassinio è ancora circondato dal mistero. “Ho sperato per il meglio, ma ero preparato per il peggio”, aveva detto Aung San qualche tempo prima.
Il grande salto. Da ragazza cosmopolita a faro della democrazia
Aung San Suu Kyi cresce in un contesto dove la sfera intima s’incrocia, anche tragicamente, con la storia internazionale. Dopo la scomparsa del fratello di 8 anni, annegato in un incidente, si trasferisce con la madre e il fratello più grande nella dimora in stile coloniale sul lago Inya, a Rangoon, dove ancora vive. Frequenta il liceo inglese metodista, mostrando un talento per le lingue straniere. Ne parla tre oltre al birmano: inglese, francese e giapponese. All’università di Nuova Delhi, dove la madre è ambasciatrice fra il 1960 e 1967, si laurea in scienze politiche. A questo punto, parte per la Gran Bretagna, dove si laurea nuovamente in politica, filosofia ed economia presso il St Hugh’s College di Oxford. Qui conosce il futuro marito, Michael Aris, anche lui proveniente da una famiglia di diplomatici e servitori della corona britannica. Aris sta per diventare tutor privato dei figli del re del Bhutan e uno dei maggiori esperti di storia buddista, himalayana e tibetana.
Prima di sposarsi, però, Assk accetta di lavorare per tre anni nella sede centrale delle Nazioni Unite di New York. A convincerla è Ma Than E, funzionaria esperta di servizi informativi e amica di famiglia. Assk la chiama “zia Dora”, dal nome d’arte che la donna – dalla vita rocambolesca e con influenti amicizie politiche – si era data in gioventù, quando era una delle più celebri cantanti birmane.
Negli anni ’60 siamo al culmine della “guerra fredda” e la Birmania è un paese instabile ma non isolato. Anzi. Mentre Suu Kyi lavora a Palazzo di vetro, il segretario generale è il birmano U Thant, uno dei fondatori del Movimento dei paesi non allineati, che si contrappone sia al blocco sovietico che a quello statunitense. U Thant incarna un’élite colta, dinamica, fondamentale nella tessitura dei rapporti fra l’Asia e il resto del mondo. Da abile diplomatico, riesce persino a mediare fra il presidente Usa, John Kennedy, e il premier dell’Urss, Nikita Khrushchev, nella crisi dei missili cubani.
1948-1962: dall’indipendenza alla dittatura militare
Cos’è accaduto nel frattempo in Birmania? Dopo l’indipendenza, la carica di primo ministro è coperta per tre mandati da U Nu, ex leader studentesco e cofondatore con Aung San della Afpfl. La Birmania è afflitta da focolai di guerra e lotte intestine nella stessa Lega anti-fascista (la coalizione di Aung San). Insorgono alcuni gruppi armati comunisti e diversi eserciti separatisti. Nel nord, al confine con la Cina, si insediano le truppe del Kuomintang, il partito nazionalista cinese che si è ritirato sull’isola di Taiwan. Ciò mette in difficoltà le autorità centrali birmane, in bilico fra gli aiuti degli Usa che sostengono il Kuomintang e la confinante Cina sotto il regime comunista di Mao Tse Tung. Anche l’esercito birmano è debole e frammentato. Le fazioni di etnia Karen vengono progressivamente emarginate. E si afferma sempre di più il comandante Ne Win, che forma una sua milizia personale con il consenso di U Nu.
Il primo ministro stringe un legame troppo forte con il suo vecchio compagno di lotte. Assieme ad Aung San, U Nu e Ne Win erano stati addestrati dai giapponesi nella “brigata dei trenta” e avevano fondato l’Afpfl. U Nu prende delle decisioni che minano l’unione repubblicana. Nel ’61 dichiara il buddismo religione di Stato, favorendo un nazionalismo su base religiosa che favorirà il fondamentalismo buddista e alienerà le minoranze, cristiane, animiste, musulmane, indù. Di fatto, prepara il terreno alla dittatura. Nel 1962, dopo essere diventato generale dell’esercito, Ne Win rovescia l’instabile repubblica con un golpe.
La Birmania sprofonda nella dittatura militare, a partito unico socialista e isolazionista. È la “Nuova via birmana verso il socialismo”, che unisce una pianificazione statale in stile sovietico a credenze locali e della tradizione buddista theravada. Un paese con grandi potenzialità di crescita, per le vaste risorse naturali, sprofonda nel tracollo economico. Ne Win nazionalizza tutte le attività commerciali e agricole. Rompe con la Cina, che dall’indipendenza sostiene le insurrezioni comuniste. Avvia una campagna xenofoba contro gli immigrati cinesi, dell’Asia meridionale e i cittadini sino-birmani, esasperando i conflitti etnici. Chiudendo le frontiere economiche con la Repubblica popolare comunista, inoltre, ne favorisce i traffici illegali. E quando l’inflazione sale, tutti sono costretti a ricorrere al mercato nero. Nello stato Shan si intensifica la guerra del partito comunista birmano contro il tatmadaw. Il nazionalismo dell’etnia maggioritaria bamar (birmana) buddista si impone con la violenza. Quello capeggiato da Ne Win non è altro che un sistema corrotto, che non governa nulla, ma aggrava i problemi preesistenti. Con esso svanisce il sogno del padre di Assk e di chiunque abbia lavorato per un’unione repubblicana.
Anni Ottanta: le rivolte e il ritorno di Aung San Suu Kyi in Birmania
Dall’Inghilterra, che cosa penserà Assk di quanto succede in patria? Nel 1967 sua madre Khin Kyi è rientrata dall’India in Birmania. Assk andrebbe a trovarla almeno tre volte all’anno. Di che cosa parleranno nella loro antica villa, che è stata ritrovo di intellettuali e politici? Per quasi un ventennio, dopo l’impiego all’Onu, non sappiamo molto delle due donne: madre e figlia, unitissime da un’esistenza drammatica. Non ci sono tracce di attivismo contro la giunta militare. Negli anni ‘70 Assk sposa Aris e partorisce due figli. E nel decennio successivo, riprende a studiare filosofia e letteratura alla Soas (School of oriental and african studies) di Londra. Sembrerebbe dedicarsi solamente al ruolo di madre e ricercatrice. Di certo, per sua stessa ammissione, è informata delle rivolte che nel 1985 si scagliano per la prima volta contro il regime di Ne Win. Gli studenti di Rangoon, gli operai e i monaci di Mandalay (secondo centro urbano, dopo Rangoon) protestano contro la politica monetaria e l’immenso debito pubblico. Già nel 1971, l’Onu aveva inserito la Birmania nel gruppo dei paesi meno sviluppati. E, quando le scuole riaprono quasi due anni dopo, nel 1987, il dissenso si è organizzato in gruppi clandestini. La Birmania è in subbuglio. Si ribellano anche i contadini. La dittatura non solo li ha resi più poveri, ma ha anche tradito il sentimento di orgoglio nazionale radicato nella popolazione.
A fine anni ’80 in occidente non si parla più del “paese dalle mille pagode”. Sembra scomparso dalle mappe geografiche, dalle rotte dei viaggiatori e dalle agende mediatiche. Invece, il risentimento popolare interno, alimentato dai problemi economici, sta per esplodere. Nel 1988 il mondo tornerà a guardare con sgomento alla repressione violenta di migliaia di manifestanti. Fra marzo e giugno, in molte regioni, folle di studenti, cittadini, membri delle minoranze etniche e monaci si ribellano contro il governo che li sta riducendo alla fame. Cominciano a invocare la “democrazia”, ma senza averne ben chiaro il significato. Una cosa è sicura: non si fidano più del regime.
Proprio quel marzo del 1988, Aung San Suu Kyi torna in Birmania per assistere la madre malata ed è testimone degli abusi di massa. Ne Win dà l’ordine di uccidere i dimostranti. I morti non si contano. Ma alla fine si dimette a luglio. Al suo posto, però, arriva il cosiddetto “macellaio di Rangoon”, Sein Lwin, un generale in pensione della milizia personale di Ne Win, tristemente noto per aver fatto sgozzare alcuni studenti anti-golpe nel 1962. I dissidenti si preparano alla protesta nazionale e allo sciopero generale dell’8-8-88. Nella rivolta, che si protrarrà fino al 31 agosto, si dice siano stati uccisi 3mila civili.
In questi giorni comincia la seconda vita di Assk, quella di leader politica che lotta per instaurare la democrazia multi-partitica nel suo paese. Stando ai fatti, si tratterebbe di una conversione velocissima avvenuta in soli sei mesi. Un grande salto. Già il 26 agosto, all’età di 43 anni, la figlia di Aung San tiene il suo primo discorso pubblico al tempio buddista di Shwedagon davanti a mezzo milione di persone.
Nell’introduzione emergono due aspetti. Assk si rivolge prima ai monaci e poi al popolo, sottolineando il legame con la religione buddista nel suo ingresso in politica. Inoltre, parla per la prima volta di “democrazia”. Il partito che da allora guida, National league for democracy (Nld), avrà proprio questo termine nella sua sigla e nascerà ufficialmente un mese dopo, il 27 settembre 1988. Non sono chiari i dettagli di come si sia formata la Nld. Ma è importante ricordare che tra i fondatori – oltre ad Assk – ci sono personalità dell’esercito in contrasto con Ne Win: Tin Oo, ex generale ed ex ministro della difesa, accusato di aver già tentato un golpe proprio contro il dittatore; Aung Shwe anche lui comandante del tatmadaw; il colonnello Kyi Maung e il generale Aung Gyi, che dopo aver partecipato al colpo di stato di Ne Win, erano usciti quasi subito dal suo esecutivo. Nel frattempo, i militari hanno ripreso il potere, qualche giorno prima, il 18 settembre. La nuova giunta si è data il nome di The State Law and Order Restoration Council (Slorc).
Icona mondiale. Venti anni di lotte, arresti, traumi
Che cosa intende Assk per democrazia? Nel discorso di Shwedagon, dice di aver appreso questa “fede” dal padre Aung San, citandolo: “L’unica ideologia coerente con la libertà, che promuove e rafforza la pace”. E poi esorta la folla a restare unita e disciplinata, aggiungendo un aspetto fondamentale della sua visione politica. Per Assk l’unità è una necessità. Bisogna colmare la distanza che si è creata fra la gente e l’esercito, che proprio suo padre ha creato. Ammette di sentirsi fortemente legata alle forze armate, ma le esorta a farsi rispettare dal popolo. Dagli inizi, si potrebbe dire che l’idea di democrazia di Aung San Suu Kyi assomiglia a quella di altri paesi asiatici, dove il ruolo dell’esercito è preponderante. Invita, inoltre, la folla a manifestare in modo pacifico, ispirandosi alla politica della non violenza di Gandhi. In futuro dirà: “Sostengo la non violenza non per motivi morali, ma pratici e politici”, dimostrando di aver assimilato la concretezza del padre.
Assk ha come obiettivo una democrazia multi-partitica e un’unione (probabilmente sul modello indiano, mutuato dal Regno Unito) in cui le diverse etnie abbiano voce. Ma la repressione dello Slorc si fa ancor più dura. Nel 1989 i militari al potere dichiarano la legge marziale e cominciano ad arrestare migliaia di persone, sostenitori della democratizzazione e attivisti dei diritti umani. Le carceri si riempiono di prigionieri politici. Si torna ai nomi geografici pre-coloniali: Myanmar sostituisce Birmania, e la capitale Rangoon diventa Yangon. Il 20 luglio Assk è messa agli arresti domiciliari. In un clima di confusione, con “The Lady” – così la chiamano i birmani – che non può candidarsi, lo Slorc concede nuove elezioni. Nel 1990 il partito di Assk ottiene l’80 per cento dei seggi, ma la giunta non ne riconosce il risultato. Gran parte dei neoeletti è arrestata. Otto di loro formano “un governo in esilio”, in una zona di confine con la Thailandia. Il suo premier è Sein Win, cugino di Assk. Presto gli esuli fuggiranno negli Stati Uniti per stabilire la sede centrale a Rockville, nel Maryland. Altri uffici saranno aperti a Bangkok, New York e Nuova Delhi. La diaspora birmana verso gli Usa e il nord d’Europa si allarga. La lobby democratica birmana viene sostenuta da varie organizzazioni e governi, tra cui un fondo democratico statunitense, la Soros foundation, l’Open society institute, Norvegia, Danimarca e Svezia.
Nella Nld si accentuano i contrasti. Alcuni ex militari ne criticano la linea troppo morbida. Uno dei fondatori del partito, l’ex generale Aung Gyi si dimette additando componenti “comuniste”. E, mentre la popolarità di Assk cresce, lei approfondisce il suo interesse per il buddismo. Forse, per avvicinarsi il più possibile alla maggioranza bamar. Fra il ’90 e il ’91 la comunità internazionale la descrive come “un’eroina della democrazia”, assegnandole il premio Sakharov e il Nobel per la Pace che ritirerà solo nel 2012. Fra le organizzazioni che la supportano, la più grande è la Burma campaign con sede a Londra. Nel ’92 Than Shwe succede a Saw Maung, come presidente dello Slorc. E nel ’95 Assk sarà finalmente liberata dopo sei anni.
La sua strada, però, è lastricata da lacerazioni del partito, attentati, problemi di salute e due nuovi arresti domiciliari (2000-2002/2003-2010). In tutto, trascorrerà rinchiusa nella sua dimora 15 anni di vita politica. Nel 1997 è la comunità internazionale a scuotere il potere dei generali. Le sanzioni economiche degli Usa (sotto l’amministrazione del democratico Bill Clinton) pesano sul governo birmano che promette, cambiando nome, “pace e sviluppo” (Spdc). Suu Kyi avvia il dialogo tra giunta, Nld e movimenti indipendentisti. Nel ’99 rinuncia a visitare il marito in fin di vita a Londra, perché teme che la giunta non la farà più rientrare. Nel nuovo millennio il generale Than Shwe continua la repressione delle popolazioni di confine e blocca a più riprese le attività della Nld. La linea di Assk non porta al dialogo. Risulta controversa la proposta di “boicottare il turismo”, che arricchisce la giunta ma dà da vivere a molti birmani.
Road for democracy, rivoluzione zafferano e ciclone Nargis
Nel 2002 l’Onu avvia delle trattative segrete con la giunta per liberare Assk. E l’anno successivo, 2003, si comincia a parlare di riforme. Ma i tempi per la cosiddetta “road for democracy” non sono maturi. The Lady subisce un agguato simile a uno precedente del 1997. Uno squadrone filo-governativo attacca la sua delegazione in visita a Depeyin. È un massacro: Assk viene risparmiata, ma muoiono almeno 70 membri della Nld. The Lady è incarcerata per tre mesi nella nota prigione di Ynsein, a Yangon, con moltissimi altri dissidenti. Dopo essere stata sottoposta a un intervento all’utero, torna agli arresti domiciliari.
Il destino di Suu Kyi e del paese è affidato al nuovo premier Khin Nyunt. Lontano dalle città e dalle coste frequentate dai turisti, la popolazione soccombe alle persecuzioni governative. Nelle regioni rurali i membri delle minoranze etniche vengono deportati in campi di lavoro e torturati. Nelle grandi opere, il lavoro forzato è una pratica diffusa. I signori della guerra e della droga continuano a controllare ampie zone, tra cui quelle del Triangolo d’oro, disseminate di piantagioni di papavero e crocevia del narcotraffico internazionale. Il Myanmar è il secondo produttore d’oppio al mondo dopo l’Afghanistan.
Al confine con Thailandia, Laos e Cina vari guerriglieri separatisti combattono contro l’esercito governativo. Nei conflitti, tutte le parti – ma soprattutto il tatmadaw – impiegano bambini soldato e portatori, che fanno strada ai militari sui terreni minati. Prosegue l’esodo di rifugiati musulmani rohingya in Bangladesh e karen in Thailandia, nonostante il rifiuto dei due paesi di ospitare campi profughi. Solo poche associazioni umanitarie hanno accesso al paese. Il governo dei militari detiene il monopolio di televisioni, radio e stampa, utilizzati come strumenti di propaganda.
Durante gli anni Duemila, proseguono le trattative delle Nazioni unite per liberare Assk. Nel 2007 il presidente Usa, George W. Bush, estende le sanzioni finanziarie, dopo che aveva inserito il Myanmar nel cosiddetto “asse del male”. Quello stesso anno l’inviato Onu, Ibrahim Gambari, riesce a incontrarla per due volte. Nel frattempo, tra agosto e ottobre, migliaia di monaci, studenti e attivisti protestano pacificamente contro l’aumento vertiginoso dei prezzi del petrolio, di altri tipi di carburante e dei beni di prima necessità, come il riso, principale alimento della dieta locale. Ad Assk è concesso di incontrare i monaci ed essere vista in pubblico per la prima volta dal 2003. La cosiddetta “rivoluzione zafferano”, però, viene repressa dai militari con decine di vittime. Come negli anni ’80, la popolazione ha manifestato soprattutto per ragioni economiche e sfiducia nel governo. Mentre l’élite al potere si arricchisce a dismisura, la spesa pubblica per la sanità e l’istruzione è tra le più basse del mondo. Un bambino su tre in Myanmar soffre di malnutrizione cronica.
Nel 2008 il ciclone Nargis devasta il delta del fiume Irrawaddy, causando la morte di almeno 134mila persone e danni per 4 miliardi di dollari. Neppure questo disastro naturale, nell’area più importante per la coltivazione di riso, smuove la giunta che rifiuta gli aiuti umanitari stranieri e prolunga i domiciliari ad Assk. Si intensifica, allora, la campagna internazionale affinché il governo birmano si impegni in una riconciliazione nazionale, nella restaurazione della democrazia e nel pieno rispetto dei diritti fondamentali. Oltre all’occidente (Ue, Uk, Usa) e ai nobel per la pace come il Dalai Lama e Desmond Tutu, anche vari governi asiatici (eccetto Cina, Russia, Vietnam e Thailandia) chiedono con forza la liberazione di Assk, che nel frattempo ha ricevuto un’altra condanna. Un cittadino statunitense si è introdotto nella sua casa in circostanze misteriose, generando una reazione durissima dei generali. Assk dovrebbe essere incarcerata per 7 anni e costretta ai lavori forzati. Dopo questo strano evento, le azioni diplomatiche saranno ancor più incisive. Sotto l’amministrazione Obama, il segretario di stato Hillary Clinton si impegna direttamente nei negoziati con i militari. Il Giappone promette nuovi aiuti e il premier britannico Gordon Brown prospetta alla giunta atri anni di isolamento e stagnazione economica se non concederà libere elezioni. Il voto organizzato dalla giunta nel 2010 è boicottato dalla stessa Nld ma, una settimana dopo, il 13 novembre 2010, Assk viene liberata.
Ascesa e caduta. La persecuzione etnica negata
Negli anni ’20, la giunta indossa gli abiti civili, ma il Myanmar resta controllato ampiamente dagli ex militari. Sebbene si firmino vari accordi di cessate il fuoco, una nazione unita non esiste ancora. E dopo un iniziale entusiasmo per Assk che rientra nell’arena politica, viaggia per il mondo e rivede i suoi figli, emergono enormi perplessità sul suo operato. Nel 2011 diventa presidente Thein Sein, un riformista fra gli ex generali, che promuove progressive aperture democratiche e soprattutto economiche: amnistie per molti prigionieri politici, creazione di sindacati dei lavoratori, nuove elezioni parlamentari nel 2012 in cui la Nld stravince, investimenti delle multinazionali. Assk entra nella camera come leader d’opposizione.
Aperture neoliberiste, assalto alle risorse e tiepide riforme democratiche
Il Myanmar torna ad attirare le attenzioni internazionali. La principale partita che si gioca non è tanto quella dei diritti, ma dell’apertura al capitalismo. E le trattative dei vari governi, tra i quali anche quello italiano, ruotano intorno alle possibilità di business. Varie multinazionali (soprattutto petrolifere) sono già presenti nel Paese. Se il governo si concede al neoliberismo l’ex Birmania si può trasformare nell’ultimo “eldorado” d’Asia. Si trova, infatti, in una posizione strategica fra India e Cina, e presenta risorse diversificate: petrolio, gas, pietre preziose, legname, terreni, manodopera a bassissimo costo. La stabilità politica è funzionale agli affari. Con un rischio noto, però: lo sviluppo potrebbe portare con sé le deformazioni che ha già causato nel continente, tra le quali un’urbanizzazione incontrollata, la distruzione di ecosistemi, l’espropriazione di terre nota come land grabbing. In questi anni comincia l’esodo di molti lavoratori, tra i quali bambini e ragazzi, verso le città.
L’amministrazione Obama affianca il processo di cambiamento. Prima del voto, Hillary Clinton aveva incontrato sia Thein Sein che Assk. E, nel 2012, The Lady viene ricevuta alla Casa Bianca. Forbes la inserisce fra le 41 donne più potenti al mondo. L’Ue sospende le sanzioni non-militari. La commissione europea offre 100 milioni di dollari in aiuti. Alcuni esuli possono tornare nel paese e aprono giornali privati. E nelle nuove consultazioni elettorali del 2015 Assk vince abbastanza seggi per formare un esecutivo. In realtà, si insedia un governo bicefalo dove la “testa militare” prevarica su quella “civile”. I generali mantengono il controllo di quasi tutti i ministeri e il 25 per cento dei seggi in parlamento. Assk, invece, è leader de facto, una sorta di primo ministro, consigliere di stato, ministro degli esteri e ministro dell’ufficio del presidente. In base alla costituzione, però, non può diventare capo di stato perché vedova di uno straniero e madre di due cittadini britannici. Il suo potere è limitato e proprio durante la transizione dalla dittatura alla democrazia si consuma una delle pagine più nere della storia birmana.
Aung San Suu Kyi nega i crimini contro i rohingya. Esplode l’estremismo buddista
A partire dal 2012 le comunità minoritarie dei musulmani rohingya, che vivono nello stato occidentale Rakhine (ex Arakan), ricco di risorse, sono bersaglio di attacchi dell’esercito e di fondamentalisti buddisti, con interi villaggi rasi al suolo, stupri, uccisioni sommarie e centinaia di migliaia persone in fuga. In un dossier del 2013, Human rights watch è la prima a parlare di “crimini contro l’umanità e pulizia etnica”. Seguono denunce simili dell’Onu, di operatori umanitari, esuli e giornalisti, ma le autorità birmane non fermano il pogrom. Fra gli analisti, c’è anche chi parla di “genocidio”. A partire dall’agosto 2017, l’esodo diventa biblico. Su circa un milione di rohingya, più di 700mila fuggono a piedi nel vicino Bangladesh. Altri si avventurano nell’oceano per raggiugere Thailandia, Malesia e Indonesia. Fra i restanti, 140mila sono rinchiusi in campi di prigionia.
Assk si rifiuta di riconoscere gli abusi. Anzi, li nega o giustifica a più riprese. Parla di “esagerazioni”, incolpa uno sparuto gruppo di guerriglieri locali della reazione (spropositata) del tatmadaw e si rifiuta di chiamare i rohingya col loro nome. Sposa completamente i diktat dei militari, che in settant’anni non hanno mai concesso loro la cittadinanza. Una legge del 1982 ha escluso i rohingya dal censimento di 135 etnie. Questi apolidi, da sempre perseguitati e privi di diritti, non sono “immigrati illegalmente” e “recentemente” dal Bangladesh come sostiene il governo. Vivono nel Rakhine da quando i colonizzatori portoghesi li deportarono come schiavi dal delta del Bengala. Successivamente, arrivano i colonizzatori inglesi a incoraggiare le divisioni comunitarie. In India favoriscono le separazioni fra indù e musulmani, mentre in Birmania preparano il terreno per una sorta di “Pakistan buddista”. I confini dell’attuale stato Rakhine (ex Arakan) sono mutati fino al 1948, quando la Birmania diventa indipendente. E i rohingya sono già stati costretti a due grandi esodi forzati nel 1978 (200mila profughi) e nel 1991(250mila).
Quando in un tour europeo, il 2 novembre 2013, Assk fa tappa a Torino, le chiedo personalmente che cosa pensa della tragedia rohingya. Lei si innervosisce. E alla seconda domanda sul monaco Ashin Wirathu, leader della propaganda razzista contro i musulmani, risponde: “Non voglio condannare una persona”. Eppure il religioso di Mandalay predica dagli anni ’90 contro gli islamici ed è uno dei capi del movimento fondamentalista buddista MaBaTha. Fa anche parte di una rete più allargata di estremisti, che include l’organizzazione nazionalista buddista Bodu Bala Sena dello Sri Lanka. Un mandato d’arresto per Wirathu scatterà solamente nel 2019 per delle frasi “oscene e personali” contro la stessa Aung San Suu Kyi.
Aung San Suu Kyi, la figlia designata potrebbe non avere eredi
Assk sceglie di non infastidire i militari del governo, che potrebbero destituirla in ogni momento. Secondo gli osservatori, è disposta a tutto per salvare il governo civile e non perdere il consenso dell’elettorato bamar buddista. Appoggia le accuse di spionaggio contro due reporter birmani della Reuters, che hanno scoperto il massacro di dieci musulmani rohingya da parte dei militari. Lascia che nel corso del 2019, come denunciato da Amnesty international, siano arrestati e processati più di 300 dissidenti, tra i quali studenti, poeti, giornalisti, monaci, attivisti ambientali e sindacalisti. E quando, nel dicembre 2019, il Tribunale penale internazionale avvia le udienze su presunti crimini contro l’umanità, di guerra e genocidio, lei si reca a deporre all’Aja difendendo ancora una volta l’operato del governo. I suoi vecchi sostenitori esprimono la loro delusione. Desmond Tutu, fautore della riconciliazione post-apartheid in Sudafrica, lo fa in una lettera aperta. Nel frattempo, negli stati confinanti Rakhine e Chin (quest’ultimo a maggioranza cristiana) si intensifica un altro conflitto, fra tatmadaw e Arakan army.
Win Tin, mentore della giovane Assk incarcerato dal 1989 al 2008, il vero “Nelson Mandela del Myanmar”, prima di morire esprimerà tutta la sua contrarietà: “Troppo morbida. Troppo filo-establishment. Chi negozia con i generali non dovrebbe mai farlo”. E aggiunge: “Assk viene riverita dai membri del partito in un modo nocivo per la democrazia”. A 75 anni, Assk ha creato un culto di se stessa e della sua dinastia, come avvenuto per altre figure politiche d’Asia? Sta formando una nuova classe dirigente che possa proseguire – senza di lei – nella costruzione di una nazione e di una reale democrazia? Per ora, pare che la figlia designata di Aung San non abbia eredi politici.
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