Una storia di oppressione che continua tuttora…
Il Paese in cui è nato il pittore Marc Chagal ha una storia di oppressione e violenze che continua anche oggi sotto il discusso governo del presidente-dittatore Aleksandr Grigor’evič Lukašenko.
«Io sono nato morto» usava dire Marc Chagall, il pittore venuto alla luce durante un pogrom nel villaggio oggi bielorusso di Lëzna.
Era il 1887, i cosacchi dello zar attaccarono la popolazione ebrea e incendiarono la sinagoga.
Oltre un secolo dopo, la sofferenza che l’artista sentiva di portare dal primo istante di vita sulla terra, adesso appare come il tragico destino di un intero popolo.
Nelle diverse fasi della sua storia, la Bielorussia non è mai riuscita a garantire i diritti fondamentali dei suoi abitanti.
Mentre scriviamo è di fatto l’ultima dittatura d’Europa sotto il presidente Aleksandr Grigor’evič Lukašenko, despota dal luglio 1994 grazie a elezioni truccate e alla quasi completa eliminazione dall’arena politica dei suoi contendenti.
Il Paese dalle grandi pianure si dichiara indipendente nel 1918, ma l’anno seguente viene subito occupato dall’Armata Rossa Sovietica.
Con il Trattato di Riga è diviso tra Polonia e Russia.
I soviet controllano tutto, anche l’arte.
Chagall fugge nel 1923 a Parigi, prima che nelle purghe di Iosiv Stalin siano uccisi più di 100mila bielorussi, in gran parte intellettuali e oppositori politici, e altre migliaia di persone siano deportate in campi di lavoro.
Durante l’occupazione nazista un altro milione di individui – soprattutto ebrei – perde la vita. Hitler invade la Polonia da Ovest, mentre Stalin occupa quella orientale, annettendola in parte alla Bielorussia occidentale e in parte all’Ucraina.
Un milione e mezzo di polacchi è poi trasferito forzatamente dall’Ovest bielorusso in Siberia.
Nel 1991, con il crollo dell’URSS, la Bielorussia si dichiara nuovamente indipendente, ma l’arrivo di Lukašenko riporta la nazione sotto la sfera d’influenza russa.
Al potere a Mosca c’è il cerchio corrotto di Boris Eltsin che si allarga a centinaia di oligarchi.
Nel 1999 arriva Vladimir Putin che, nonostante diverse frizioni con il tiranno bielorusso, lo trasforma in un suo vassallo.
Come? Sempre attraverso l’ormai noto ricatto delle fonti energetiche russe, dalle quali la Bielorussia dipende in larga misura.
La relazione fra i due regimi è una continua trattativa su prestiti, aiuti vari, concessione di basi ed esercitazioni militari, soprattutto quando Minsk – a causa della sua economia in declino – non è in grado di pagare il regime del “nuovo zar”.
Dopo l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo, Lukašenko e Putin hanno siglato un accordo per uno schieramento militare congiunto che comprende circa novemila soldati russi lungo la frontiera bielorussa.
A destare preoccupazione sono anche alcune batterie missilistiche russe intercettate dai servizi di intelligence britannici.
A ottobre il governo polacco ha invitato i suoi concittadini a lasciare la Bielorussia, avvertimento già indirizzato a settembre ai polacchi in Russia.
I rapporti tra Varsavia e Minsk sono sempre più tesi e affondano le radici in un terreno lacerato, le ferite del secolo scorso non sono mai state rimarginate.
Oggi la Bielorussia è abitata da quasi nove milioni e mezzo di abitanti, dove i bielorussi rappresentano l’etnia maggioritaria dell’84%, i russi l’8%, i polacchi il 3% e gli ucraini quasi il 2%.
Tra i praticanti prevale il 48% di cristiani ortodossi, seguito da un 7% di cattolici.
Una composizione assai diversa da quella di inizio Novecento, dove la persistente russificazione ha minato le minoranze linguistiche e religiose, in particolare polacchi ed ebrei.
Il regime di Lukašenko continua a reprimere le libertà politiche e civili, d’espressione e di stampa, di associazione e manifestazione.
La società civile dissente e resiste. Tutte le sei elezioni-riconferma di Lukašenko hanno generato proteste pacifiche di massa.
Quelle scaturite dall’ultimo voto dell’estate 2020 sono durate più di un anno.
Al momento nelle carceri bielorusse si contano 1.348 prigionieri politici, tra i quali Ales Bialiatski insignito del Nobel per la pace 2022 assieme all’associazione russa Memorial e al Centro per le Libertà Civili ucraino.
Bialiatski, 60 anni, ha fondato il gruppo per i diritti umani Viasna nel 1996, fornendo sostegno alle famiglie dei manifestanti arrestati e documentando l’uso della tortura contro di loro.
Già incarcerato per tre anni con accuse mai dimostrate dal 2011 al 2014, è stato definito dalla Nobel per la letteratura Svetlana Alexievich «una figura leggendaria».
La giornalista e scrittrice bielorussa, che ha raccontato vittime e carnefici della “Grande Utopia” comunista, ha denunciato che Bialiatski è gravemente malato e ha bisogno di cure.
Ma nello Stato di polizia di Lukašenko non esiste alcun rispetto per il detenuto, solamente arresti e condanne sommarie, uso sproporzionato della forza, sparizioni, omicidi politicamente motivati e l’utilizzo della pena di morte ormai bandito nel resto d’Europa.
(Questo articolo è stato pubblicato sul numero di dicembre di Popoli e Missione).