A oltre 2.000 metri di altitudine, l’antica città buddista di Mes Aynak inconsapevolmente resiste, adagiata sulle montagne aride e maestose della provincia del Logar, in Afghanistan. Viva da 5.000 anni, benché in gran parte sepolta. Per ora salva, grazie agli archeologi afghani e stranieri che da anni lavorano al sito.
Ma sempre a rischio per diverse ragioni. Si trova in balìa degli agenti atmosferici e dei cambiamenti climatici. Nel sopra e sottosuolo due compagnie cinesi vorrebbero estrarre un’ingente quantità di rame, che potrebbe comportarne la distruzione. Infine, il suo destino dipende dagli eventi politici. Non si sa ancora come incideranno
l’instabilità generata dal ritiro della coalizione militare USA/NATO e la repentina riconquista del potere da parte dei Talebani.
Mes Aynak simboleggia l’immensa bellezza di un Afghanistan quasi sconosciuto. Fu culla del buddismo che si diffuse nel resto dell’Asia e crocevia storico fra Oriente e Occidente, lungo l’antica Via Della Seta. Mes Aynak, come l’intero patrimonio culturale dell’Afghanistan, vasto quanto quello italiano, è stato abbandonato, depredato, violato a causa di guerre, interessi politici ed economici, corruzione, traffici illegali. In prima linea, a proteggerlo ci sono diversi studiosi. Non potendo intervistare gli afghani per motivi di sicurezza, abbiamo interpellato tre archeologi che collaborano da tempo con le maestranze locali e le hanno formate: i professori Philippe Marquis, direttore della Delegazione archeologica francese in Afghanistan (DAFA), Anna Filigenzi e Luca Olivieri, a capo rispettivamente delle missioni archeologiche italiane in Afghanistan e in Pakistan.