La più importante scrittrice indiana, Arundhati Roy, rilascia a East un’intervista esclusiva in cui respinge tutti i luoghi comuni che le sono stati attribuiti.
Divenuta famosa in tutto il mondo nel 1997 con il romanzo “Il dio delle piccole cose”, ha in seguito scritto saggi politici e partecipato a campagne per i diritti degli ultimi, tra cui le migliaia di contadini indiani sfollati per la costruzione delle dighe.
Con numerosi articoli e discorsi, questa donna minuta di 46 anni magnificamente portati, ha severamente criticato tutte le oligarchie che detengono il potere e causano le guerre: “Non giustifico la guerra – spiega con occhi che esprimono grande energia e tenacia – perché è sempre provocata dagli Stati, ma capisco certe guerriglie. Una pace senza giustizia può favorire gli interessi delle multinazionali e dei governi”. E gli insegnamenti non violenti del Mahatma Gandhi? “Il Mahatma non era un dio, anche se parte del suo pensiero potrebbe cambiare il mondo in meglio. Oggi, tuttavia, i più grandi movimenti non violenti sono stati distrutti, derisi e sminuiti dallo Stato”. Secondo la Roy, il pacifismo è stato sconfitto, ma bisogna continuare a resistere. Anche scrivendo un secondo romanzo, dopo quasi dieci anni dal successo di un’epopea famigliare, che ha dipinto l’India come un Paese complesso e, ancora una volta, lontano dagli stereotipi.
Dopo la repressione delle manifestazioni nell’ex Birmania, ha ancora senso l’ahimsa, “la resistenza non violenta”?
Non solo nell’ex Birmania, ma anche in India, supposta patria dell’ahimsa, i più grandi movimenti non violenti sono stati distrutti, derisi e sminuiti dallo Stato. Ovunque si vedono nascere conflitti armati. In Birmania, Palestina, Kashmir e Iraq la non violenza non è presa sul serio dal potere oppressivo e coloniale. La non violenza, d’altra parte, può diventare un ulteriore mezzo per approfittarsi della gente da parte degli Stati che oggi sono tutti armati fino ai denti. All’interno dei conflitti non bisogna distinguere solo fra violenti e non violenti. A volte questa distinzione è artificiosa.
Perché?
All’interno di un conflitto non è detto che tutti siano armati e che combattano una guerra. In India, per esempio, ci sono piccoli gruppi armati e militanti non violenti che lottano per una stessa causa. Oggi il mondo è più complesso rispetto ai tempi della lotta non violenta di Gandhi per l’indipendenza (1931-’47, ndr).
A proposito del grande Mahatma, cos’è rimasto oggi del suo insegnamento?
Gandhi è un argomento enorme e complicato. Non era un dio e ci sono molte cose di lui che non condivido, come ad esempio il suo atteggiamento paternalistico verso le caste. Parte del suo pensiero, tuttavia, è ancora fondamentale per immaginare un mondo diverso da quello di oggi, afflitto da consumismo sfrenato, colonialismo economico e riscaldamento globale. Non so, però, come si possano applicare i suoi principi morali. Dovrebbero essere assorbiti a livello individuale, visto che la politica è incapace di farlo.
Anche nel suo Paese, punto di riferimento per molti pacifisti?
L’India pacifista, dove le persone lievitano dalla terra e meditano tutto il tempo, è un falso mito che piace ai turisti. Oggi il mio è un Paese con una politica violenta e dove chi lotta per la pace è stato messo da parte.
Come i membri del movimento neo-global, di cui molti la considerano una guida. Lei come si vede?
Non sono né una guida né una pacifista, se s’intende chi sposa la pace a tutti i costi, anche senza giustizia. In un Paese feudale come l’India se lo si fa, si finisce col favorire gli interessi delle multinazionali e del potere. Io mi oppongo a ciò e sono per la resistenza.
Allora ci sono guerre giuste per lei?
No. Non giustifico la guerra perché è sempre provocata dagli Stati. Nell’India centrale il governo dà le armi agli indigeni per combattere i maoisti e dice loro: “O state con noi o contro di noi“. La guerra civile in questo caso è causata dal governo, che fa combattere i poveri contro i poveri. Ci si aspetta che persone come me condannino queste guerriglie, ma non posso. Nella loro situazione non c’è scelta e non si può essere pacifisti.
Lei, però, ha sempre sostenuto l’utilizzo di mezzi non violenti. Come sta andando la sua battaglia pacifica contro le dighe, simbolo per lo Stato indiano di grande progresso, e in particolare contro quelle del fiume Narmada?
Non è la mia battaglia, ma quella di migliaia di persone che vivono lungo il fiume. Questa lotta sta andando male e non solo lungo il Narmada, ma in tutta l’India. Molte dighe ormai sono state costruite e sono in parte già funzionanti. La Banca Mondiale è tornata a finanziarle con il permesso del governo indiano e la Corte di Giustizia indiana ne favorisce la costruzione a scapito dell’ecosistema. Hanno anche cercato di cambiare il corso di tutti i fiumi e di collegarli fra loro. Una follia.
Gran parte del Paese sarà inondato e migliaia di persone verranno sfollate…
Sì, perché in India è in corso una secessione sociale. La classe media si disinteressa sempre più del resto della popolazione. Malgrado il coinvolgimento della Banca Mondiale, l’India è vittima più di se stessa che della comunità internazionale.
Anche nel suo primo romanzo sottolinea che l’India sta vivendo un boom economico impressionante a discapito delle “piccole cose e delle piccole vite”. Ma cos’è per lei il progresso?
Progresso significa che la società cerca di diventare più egualitaria. In India alcuni stanno diventando incredibilmente ricchi, mentre la maggior parte della popolazione sta diventando incredibilmente povera. Molte persone hanno meno cibo che nell’Africa Subsahariana. Negli ultimi anni 137mila contadini si sono suicidati per i debiti. Un milione di spazzini è costretto a trasportare feci umane sulla testa. I musulmani sono seriamente discriminati e in Kashmir, la zona più militarizzata del mondo, 60mila persone sono state uccise in meno di vent’anni. I giornali, tuttavia, non parlano di tutti questi problemi perché guardano all’India solo come a un mercato in cui investire.
Dato questo quadro, come trovare la forza per continuare a ‘resistere’?
Si combatte quando c’è qualcosa che si ama da proteggere. L’India è forse il Paese con la più grande immaginazione. Invece di una struttura sociale rigida, presenta una gioiosa anarchia. Un caos positivo che le autorità vogliono cancellare per i loro interessi economici. Non c’è bisogno che GAP venda i sari. Gli indiani possono continuare a farlo da soli.
Il suo prossimo impegno sarà ancora sul fronte sociale?
No, per me è arrivato il momento di scrivere un secondo romanzo. Dal ’97, quando ho pubblicato “Il dio delle piccole cose”, l’India ha iniziato un viaggio verso l’oscurità. Da allora mi sono dedicata ai saggi politici e alle campagne sociali perché c’era bisogno di indicare il nemico. Adesso che ho raggiunto questo obiettivo è ora di combattere la battaglia, ma non è compito mio. Io devo tornare al mio lavoro di scrittrice.