Intervista all’autore de “Il fondamentalista riluttante”, storia di un pachistano trasferito a New York e del suo rapporto pericoloso con gli estremismi
Mohsin Hamid, pachistano 36enne, è uno degli scrittori rivelazione di quest’anno. Il suo secondo libro ha un titolo così accattivante per i nostri tempi, che ha attratto subito i lettori americani ed europei. “Il fondamentalista riluttante”, edito da Einaudi, è la storia umanissima di un ventenne che deve fare i conti con una serie di contraddizioni. Changez, questo il nome del protagonista, è un pachistano orgoglioso delle proprie origini, ma anche uno dei migliori studenti dell’università di Princeton. Ama Erica, una ragazza di New York, disinibita e problematica, sullo sfondo però di una città colpita dagli attacchi del fondamentalismo islamico e di un mondo sconvolto dalla politica straniera statunitense. Quando comincia a lavorare per un’importante società finanziaria, inoltre, si accorge di un altro fondamentalismo, quello economico, che decide i destini di migliaia di persone. Ambientato in un caffè di Lahore e scritto nella forma di un dialogo a una sola voce, quella di Changez che si rivolge a un misterioso americano, il romanzo è un racconto ad altissima tensione. “Scrivo per esplorare le crisi interiori tipiche di un mondo sempre più complesso”, rivela l’autore, che con Changez ha moltissimi punti in comune: è emigrato da Lahore alla Grande Mela, ha studiato a Princeton e ha lavorato in una società finanziaria newyorkese. Oggi Hamid vive a Londra, un’altra grande capitale dell’Occidente, anche se per lui “la divisione del mondo fra est e ovest non corrisponde alla realtà”.
In quale personaggio del suo libro si identifica di più: il pachistano, l’americano, entrambi o nessuno dei due?
Mi identifico in tutto quello che lei ha detto. Per me è importante non semplificare e non identificarsi in una sola cosa. Un’unica parola come pachistano, americano, britannico non mi descrive. La sola parola che mi corrisponde è il mio nome, Mohsin Hamid. Ognuno di noi deve attribuirsi un senso, senza contare su un’identità precostituita.
Dopo l’assalto di luglio alla Moschea Rossa di Islamabad occupata dagli estremisti islamici, gli attacchi terroristici in Pakistan sono aumentati. Che cosa direbbe a un giovane pachistano che vuole aderire al fondamentalismo islamico?
Ci sono 160 milioni di pachistani, più dei tedeschi e degli italiani insieme. Una gran parte è giovane. Non penso che la maggior parte di questi ragazzi sia interessata a diventare terrorista. Credo che molti vorrebbero essere rockstar o atleti di fama internazionale. A quella minoranza che vuole diventare terrorista direi che si deve guardare dentro, perché la battaglia che sta combattendo è dentro di lei e non nel mondo in cui vive.
Come per Changez, il protagonista del suo libro….
Sì, al centro del mio romanzo c’è la crisi personale di Changez, che ha i dubbi tipici di un giovane pachistano di 22 anni, trasferito negli Usa e studente a Princeton. Quando arriva l’11 settembre 2001 comincia a soffermarsi sui problemi dei Paesi musulmani che vede minacciati dagli Usa, dove si è ben inserito. La sua ferita interiore si apre e non sa come risolvere questa tensione. Davanti a una situazione complessa, cerca di semplificarla. Pensa di poter scegliere una sola identità e si sbaglia, perché non accetta le sue contraddizioni.
Anche i kamikaze vivono una crisi personale?
Esatto. I terroristi spesso sposano una causa politica per colmare un vuoto. Anche l’attentatore può volersi liberare da conflitti interiori. Non è difficile capire da dove deriva il loro vuoto, visto che vivono in Paesi occupati militarmente o in cui devono affrontare mille crisi quotidiane.
In un mondo sempre più multiculturale, Changez è quindi metafora della modernità?
Changez è colpito dalla grande malattia del nostro secolo: la nostalgia, conseguenza di un mondo che cambia velocemente e dove il futuro è sempre più incerto. Bin Laden evoca il califfato musulmano del 1300, Bush si rivolge agli alleati del XX secolo, i leader europei parlano di paesi monoetnici ecc. Bombardati da questi messaggi, diventiamo tutti più vulnerabili. Per superare le tensioni che lo colgono a New York, Changez guarda ai tempi della giovinezza in Pakistan. Erica, invece, ama una persona che non c’è più. Entrambi cercano di costruire un futuro, mentre rimpiangono il passato. E per questo la loro relazione è destinata a una fine tragica.
Ma esiste veramente un conflitto fra Occidente e Oriente?
Non credo nelle definizioni di Occidente e Oriente. E’ tutto più complesso. Nella metropolitana di Londra vedi conservatori pachistani e ragazze che vanno in minigonna ai rave party. Ormai Occidente e Oriente si fondono. Vogliamo inserirci in gruppi che ci danno un senso di protezione, ma sono concetti troppo fragili e troppo lontani dalle identità peculiari. Di certo ci sono differenze culturali fra i Paesi, ma anche tante sottoculture all’interno dello stesso Paese. Le generalizzazioni possono metterci in difficoltà. Ci sono molti pachistani simili agli italiani in modi che non possiamo nemmeno immaginare. Mia moglie, per esempio, aveva una nonna italiana e un nonno pachistano, e io mi sono ritrovato a festeggiare un matrimonio per metà italiano. E’ importante pensare qual è il nuovo gruppo al quale possiamo appartenere. Dobbiamo chiederci come possiamo affrontare il collasso dei vecchi gruppi e la diffusione di nuovi sottogruppi. Oggi il viaggio della moralità consiste nel capire che esiste un conflitto in tutti noi fra diverse identità.
In vista delle elezioni parlamentari la situazione in Pakistan è molto incerta. I tempi sono maturi per una svolta democratica?
Assolutamente sì. Il Pakistan è meno spaventoso di quanto la gente pensi. La popolazione è stanca del fatto che il Paese è al centro della lotta fra diverse culture e nazioni. Negli ultimi cinque anni ci sono stati incredibili cambiamenti. La televisione ha preso il sopravvento: ci sono tanti tipi di canali e leader politici che conducono dibattiti. Abbiamo inziato una conversazione pubblica che non era mai esistita prima.
Nel 2002 ha votato per l’attuale presidente Pervez Musharraf, che prese il potere con un golpe. Ora cosa pensa di fare?
Vi domanderete perché una persona come me abbia votato per un dittatore. Quando cinque anni fa sembrava che il Pakistan potesse essere invaso dall’India e che le truppe americane potessero entrare nel Paese, Musharraf sembrava fare un lavoro molto buono per evitarlo. Avevo paura e sentivo che quell’uomo aveva buone intenzioni. Ma la strada per l’inferno è rastrellata di buone intenzioni! Oggi, tuttavia, non voterei per Musharraf perché ho capito che serve un dialogo tra le diverse realtà del Pakistan e che la voce di un solo uomo non può sostituire questo dialogo.
Si aspettava un così grande successo?
Sì e no. Speravo che il romanzo avesse un enorme successo, ma ero anche terrorizzato che fosse un completo fiasco. Ho imparato che gran parte del successo è dovuto alla fortuna. Se avessi pubblicato il mio libro due anni fa, forse gli americani lo avrebbero odiato, perché era troppo presto rispetto agli eventi dell’11 settembre 2001. Probabilmente le persone non avrebbero cercato tante alternative alla visione di Bush come fanno ora.
Con quali letture è cresciuto?
Da bambino ho letto soprattutto libri stranieri perché in Pakistan c’erano poche pubblicazioni per l’infanzia. Il libro che più mi ha emozionato è “Charlotte’s Web” di Elwyn Brooks White, la storia di un ragno parlante e di un maiale, che tratta in modo sofisticato il tema della morte. Usa il ritmo delle stagioni per creare un’enorme tristezza, ma nessuna paura. Per me, tuttavia, i racconti più importanti sono stati quelli orali della mia famiglia, che la sera si riuniva per narrare storie fantastiche su amici e parenti.
Da brillante analista finanziario a scrittore. Perché?
Scrivo perché mi rende felice e per esplorare le tensioni che convivono dentro di me.