In Albania centinaia di minori vivono chiusi in casa a causa delle faide
Hanno le cartelle, i fogli e le penne colorate in mano, ma non sono mai andati a scuola. Aida, Erion e Bledi (i nomi sono di fantasia), due fratelli e un cugino di 8, 11 e 12 anni, fanno i compiti a casa con un’insegnante che viene a trovarli due volte a settimana.
Fuori li attendono un giardino, un cane e i prati di campagna, ma non possono uscire perché temono di essere le prossime vittime di una faida che dura dal ’98. Nel nord povero e rurale dell’Albania si uccide ancora per vendicare l’onore della propria famiglia.
Soprattutto fra le genti delle montagne, ha una certa influenza il Kanun di Lek Dukagjini, il più importante codice consuetudinario albanese nato nel XV secolo per regolare una società basata sul clan. Oggi, però, questi principi medievali, che codificano la cosiddetta “vendetta di sangue“, vengono addirittura ripresi in modo più arbitrario e barbarico di un tempo: per vendicare un omicidio non si uccidono più solo i colpevoli, ma anche i parenti degli assassini fino al terzo grado, senza risparmiare donne e ragazzi sotto i 18 anni.
Non esistono stime precise, ma le organizzazioni umanitarie locali riportano che vivono rinchiuse in casa, unico luogo “inviolabile” secondo il Kanun, 900 famiglie e almeno 800 minori.
Nei dintorni di Scutari, la cittadina più importante del nord, i palazzi fatiscenti e le strade sterrate sembrano i resti di una guerra mai combattuta. Qui la metà della popolazione sopravvive sotto la soglia di povertà e le baraccopoli crescono a macchia d’olio per il flusso migratorio incessante dalle montagne. In una di queste case abusive, costruite in fretta, quattro ragazzini fra i cinque e i 15 anni rimangono soli per gran parte della giornata. La madre è costretta a lavorare in fabbrica a cento euro al mese, mentre il padre è in carcere per aver partecipato sette anni fa a una rissa in cui è morto un uomo. “Mio padre non ha ucciso nessuno, ma i parenti della vittima vogliono lo stesso vendicarsi contro di noi“, spiega il ragazzo più grande abbassando lo sguardo. Ha 15 anni e da sette, non potendo lasciare le quattro mura, passa il tempo guardando i programmi d’intrattenimento della tv italiana: “Mi piacciono gli ‘Amici’ di Maria De Filippi. Vorrei essere libero e divertirmi come loro“, rivela accennando un timido sorriso. Di amici, invece, questi ragazzi non ne hanno dal giorno della rissa. Nessuno va a trovarli, tranne una maestra che, su invito di un’associazione del posto, li aiuta a studiare.
Secondo fonti delle forze dell’ordine negli ultimi dieci anni nell’area di Scutari gli omicidi per vendetta sono diminuiti del 90%, ma c’è ancora molto da fare. Ad occuparsi del problema delle vendette sono diversi volontari, soprattutto anziani, che tentano di riconciliare le famiglie: “Anche il Kanun prevedeva il perdono come atto di coraggio mediato dai saggi della comunità“, dice Aleksander Kola, professore di fisica in pensione. “Noi riprendiamo questa parte buona del codice e cerchiamo di insegnarla a chi si vuole vendicare“. Kola non risparmia, però, qualche nota polemica verso i suoi colleghi: “La mediazione per alcuni è un business. Non si capisce perché i riconciliatori sono aumentati, quando il fenomeno delle vendette è diminuito“.
Le uccisioni per vendetta, punite e fermate dal dittatore Enver Hoxha con la pena di morte, sono ricomparse dopo la caduta del regime comunista e l’approdo alla democrazia nei primi anni Novanta. “Allora lo Stato era assente come nel periodo della dominazione turca, quando è nato il Kanun”, racconta in un bar di Tirana Gjin Marku, presidente del Comitato di Riconciliazione Nazionale che riunisce molti mediatori. “Le vendette sono il prodotto del caos. La società post-comunista con la fine delle collettivizzazioni ha generato conflitti legati alla proprietà che sono sfociati spesso in uccisioni“. Anche oggi, tuttavia, nell’Albania che sogna di entrare in Europa e presenta una crescita del 5% del PIL, rimane una grande sfiducia verso lo Stato e qualcuno continua a farsi giustizia da sé. Secondo Amnesty International l’impunità continua a indebolire il sistema giudiziario albanese e contribuisce a creare un clima di disillusione assieme ad altri importanti fattori: disoccupazione diffusa, assenza di infrastrutture, corruzione dilagante. In un Paese dove i più bisognosi campano di rimesse, a volte non resta che cercare un futuro migliore all’estero.
“Sogno ogni giorno di mandare mio figlio maggiore in un Paese straniero per un duplice motivo: lì potrebbe finire gli studi e sottrarsi alla vendetta”, dice un uomo di 45 anni dal viso segnato. “Sei anni fa mio cugino ha ucciso un uomo e da allora vivo rinchiuso con mia moglie e i miei 5 figli“. Secondo le assurde “regole” di questa faida il primogenito, che ha già 16 anni, rischia la vita più degli altri ragazzi, ma alla sua famiglia mancano i permessi e i soldi per farlo espatriare. I genitori, infatti, non possono lavorare e mantengono sé stessi e i figli con un sussidio del comune di 4mila lek (32 euro) al mese.