Vita quotidiana di un giornalista in Iraq. La descrive a Rinascita, con parole rotte dall’emozione, Zuhair al Jezairy, direttore dell’agenzia di stampa Aswat al Iraq (Voci dall’Iraq) e autore di un libro su Saddam Hussein e il partito Baath, oggi fra i più venduti nel Paese mediorientale. Lo incontriamo a Ferrara, in occasione del primo convegno annuale di Internazionale, in cui ha una rubrica. Nei suoi occhi si legge la sofferenza di chi vive e racconta una delle guerre più sanguinose del nostro tempo. Ma anche un bisogno disperato di normalità, che dice di condividere con gran parte della popolazione irachena.
A 62 anni, sciita, Al Jezairy ha alle spalle 29 anni di esilio in diversi Paesi (Libano, Siria, Kurdistan iracheno, Gran Bretagna) e circa quarant’anni di lavoro giornalistico. Un bagaglio d’esperienza che, nonostante i rischi e le rinunce personali, dal 2003 ha deciso di mettere a disposizione del suo martoriato Paese.
Com’è fare il direttore di un’agenzia di stampa a Baghdad, uno dei luoghi più pericolosi al mondo?
Per dirigere 72 reporter e 51 fotografi, che coprono ogni tipo di notizia in Iraq, seguo un’agenda quotidiana. Appena arrivato in redazione controllo le email dei miei giornalisti e se qualcuno di loro ha bisogno urgente di aiuto. Almeno la metà dei reporter lavora in zone pericolose. Ogni giorno ci sono problemi e quindi la loro sicurezza è la prima cosa a cui penso quando mi alzo la mattina. Se qualcuno, per esempio, mi scrive di aver trovato un foglio che minaccia d’ucciderlo davanti alla porta, valuto con lui il pericolo. A volte devo chiedergli di smettere di lavorare per un periodo o di trasferirsi in un altro posto. Spesso accolgo i reporter nel mio ufficio che non ha insegne ed è in un luogo abbastanza sicuro. Una volta, tuttavia, alcune persone vennero a fotografare l’entrata della redazione con una scusa. In seguito una mia reporter è stata fermata e le è stato detto di ‘non tornare di nuovo in quel posto’. Eppure la redazione è come se non esistesse. Ho un addetto alla sicurezza che mi dice come muovermi e due guardie dentro l’ufficio, ma nessuno davanti.
Ha perso alcuni suoi dipendenti?
Sì. Un addetto alla sicurezza è stato ucciso mentre portava la figlia a scuola. A marzo, invece, sono stati assassinati tre reporter, tra i quali una ragazza. Sapeva che il suo nome era stato messo su una lista nera e io le avevo detto di lasciare la città e di raggiungere la famiglia in un altro Paese. Lei ha detto ‘no’ con un sorriso.
Anche lei corre dei rischi?
Temo di sì. Ogni giorno devo cambiare l’orario e il tragitto dei miei spostamenti, anche se non sono certo di essere preso di mira. Non credo che la nostra agenzia si esponga troppo, ma dobbiamo stare attenti perché siamo nel mezzo di una guerra civile senza fronti. Quando ho coperto la guerra in Libano sapevo da dove arrivavano gli attacchi. In Iraq è molto diverso, gli attacchi non si sa da dove vengono e a chi sono diretti. I miei reporter sul campo sono al centro di questa confusione.
Come li consiglia?
Li addestro sulle misure di sicurezza, ma sanno cosa fare meglio di me. Ognuno si occupa di un territorio che conosce bene.
Perché ha deciso di tornare in Iraq proprio nel 2003 all’inizio della guerra?
Quando decisi di tornare ero in Africa a girare un servizio e vidi alla tv che veniva abbattuta la statua di Saddam Hussein nel centro di Baghdad. Volevo riabbracciare i miei famigliari che non vedevo dal 1982. Mia madre e mio padre erano morti in quell’arco di tempo, ma volevo ritrovare il resto della mia famiglia. Desideravo anche rivedere il mio Paese, che avevo lasciato quando avevo 40 anni, adesso libero dalla tirannia. E poi come scrittore ero molto curioso di assistere a quel momento storico. Non sapevo, però, come rientrare. Poiché ero cittadino britannico, andai all’ambasciata britannica di Dubai per chiedere aiuto e scoprii che una troupe televisiva stava per compiere il viaggio verso l’Iraq. Mi unii a loro e dopo venti anni finalmente tornai alla mia vecchia casa e dalle mie sorelle, che da adolescenti erano divenute mamme e nonne. Era sorprendente, c’era tutta una nuova generazione che non conoscevo e che aveva solo sentito parlare di me. Io e altri giornalisti cominciammo a pensare cosa potevamo fare. Tutti nutrivano grandi speranze per il futuro.
La situazione, invece, è precipitata. Ha mai pensato di lasciare l’Iraq dopo esserci tornato?
Molte volte. E l’ho anche fatto. Una volta sono tornato per venti giorni nella mia casa di Londra, dove vive una delle mie figlie. In quel periodo l’unica cosa che ha fatto notizia nel nostro quartiere è stata che un cane pastore indossava gli stessi pantaloni del suo anziano padrone! Come potevo rimanere lì con tutto quello che accadeva nel mio Paese?
Qual è il suo antidoto personale contro la paura?
Ogni notte mi preoccupo per ciò che accadrà l’indomani. Appena spunta il sole mi sveglio sudato. Poi mi alzo e vado a trovare le figlie di mia sorella che si preparano ad andare a scuola. Lì mi accorgo che diverse persone, nonostante si aspettino ogni giorno l’esplosione di un’autobomba, continuano a fare cose normali, come lavorare e studiare, e così accantono le paure.
C’è qualcosa che i mezzi di comunicazione occidentali non dicono mai sull’Iraq?
Sì. Per loro fanno notizia solo le autobombe e gli scontri, ma non la vita normale. Molti reporter stranieri vivono in una sorta di ‘container’, la Green Zone (zona blindata degli uffici governativi e diplomatici nel centro di Baghdad, ndr.), o in certi hotel e non escono in mezzo alla gente. Per capire le regole di questa violenza, tuttavia, bisogna conoscere a fondo la società. Non condanno, però, questi giornalisti perché non possono agire diversamente per motivi di sicurezza. Anche le analisi dei media occidentali su ciò che accade in Iraq sono troppo sintetiche e semplificate. Si limitano spesso a un elenco di fatti e vittime.
Noi giornalisti occidentali cosa non capiamo dell’Iraq?
Le rispondo con un esempio. Un giorno un reporter mi chiese se le etnie e i gruppi religiosi dell’Iraq, prima divisi, erano stati uniti artificialmente durante l’occupazione britannica negli anni Venti. Io gli risposi che si sbagliava: non c’erano mai state in passato le divisioni che lui pensava fra curdi, sciiti e sunniti e la mia famiglia ne è la dimostrazione. Io sciita ho sposato una donna curda e sunnita, e tre delle mie sorelle hanno mariti sunniti. Dopo la caduta di Saddam ognuno ha cominciato a difendere la propria identità e le proprie radici, ma ciò non significa che tutti si fanno la guerra gli uni contro gli altri. La realtà è molto più complessa.
Se dovesse fare un appello all’Occidente implicato in questa guerra…
Spero in un maggior dialogo fra l’Unione Europea e l’amministrazione americana. Gli Stati Uniti finora hanno controllato il Paese, ma non hanno voluto ascoltare altri soggetti.
Ha un sogno per sé e le sue figlie?
Vorrei che un giorno potessimo vivere tutti insieme in un Iraq civile e pacifico. A volte mi chiedono perché non torno da loro. E’ difficile rispondere. So solo che in Iraq posso fare un lavoro migliore che altrove.