“Lo sport è il miglior modo per dimenticare tutto”, ci dice sorridendo un ragazzo iracheno in t-shirt e pantaloncini da calcio. Poi con passo veloce ci porta nella sua stanza dove, accanto a una valigia di pelle consumata da cui fuoriescono alcuni vestiti piegati in fretta, ci sono un pallone, la foto del centrocampista francese Franck Ribery e un piatto con lo schizzo di Erbil, la sua città a nord dell’Iraq, in Kurdistan.
Quando gli chiediamo cosa non può scordare del suo martoriato Paese, lasciato pochi mesi fa, Bakhtiyar Hadad, ex fixer (procacciatore di storie e contatti, ndr.) e traduttore per molti reporter d’Oltralpe, non riesce a stare fermo. Molti pensieri affiorano nella sua mente rendendolo irrequieto: il primo impiego come tecnico di una compagnia elettrica ai tempi di Saddam, gli studi presso l’Istituto di Lingua Francese, la svolta come fixer di autorevoli testate (tra cui Le Monde, Le Figaro, France 2, Canal+, RTL) dopo l’inizio della guerra nel 2003, l’arresto da parte dell’esercito statunitense assieme al fotografo Corentin Fleury. A questo punto il giovane 32enne resta in silenzio, spostando lo sguardo al paesaggio che si vede dalla finestra.
Siamo nel XVesimo arrondissement, in una zona tranquilla a ridosso della periferia parigina, vicino a un parco. Da cinque anni all’interno di una fabbrica ristrutturata sorge la Maison des Journalistes, la prima e unica “casa” al mondo che ospita giornalisti e operatori dei media richiedenti asilo politico. L’edificio su tre piani è arioso e pieno di luce, ma in ognuna delle 15 stanze con le porte colorate – i rifugiati, che restano al massimo sei mesi, il tempo necessario per ottenere l’asilo politico, sono trenta all’anno – c’è una storia di persecuzione ed esilio, come quella di Haddad.
“Tutti i nostri ospiti hanno subito violenze di vario tipo, fisiche e psicologiche”, rivela Philippe Spinau, giornalista parigino e uno dei fondatori della Maison con la collega e amica Daniele Ohayon. Ha un aspetto stravagante per i suoi 58 anni (lunga barba bianca, maglia e pantaloni larghi, scarpe stringate color arancione), ma un carattere molto pragmatico: “Intuisco le sofferenze dei miei ospiti dai loro sguardi, anche se non pretendo sempre di sapere tutto. Per questo ci sono psicologi che si occupano di loro”.
Per Hadad il ricordo più traumatico è quello della sua prigionia, che però preferisce “lasciare in fondo ai pensieri”. Nell’ottobre 2004 Hadad e Fleury vanno a Falluja per coprire l’offensiva Usa contro i ribelli sunniti. Ogni giorno ci sono bombardamenti nei quali – si verrà a scoprire un anno dopo con un’inchiesta di RAINews 24 – viene gettato anche il fosforo bianco, un agente chimico proibito dalle Convenzioni internazionali che brucia i corpi e lascia intatti gli abiti. L’8 novembre, giorno dell’”assalto finale”, Hadad e Fleury cercano di lasciare la città, ma vengono arrestati dai marines americani. Il fotografo francese è rilasciato dopo cinque giorni, mentre Hadad viene liberato solo il 5 dicembre, dopo aver passato le ultime due settimane nella famigerata prigione di Abu Ghraib, per il sospetto, mai provato, di aver collaborato con la guerriglia irachena. Non è quest’esperienza, tuttavia, la ragione che spinge il fixer a fuggire dal suo Paese, ma la collaborazione a un servizio sul conflitto fra sciiti e sunniti che sarà trasmesso in Francia il 13 settembre 2007. Lui, l’8 settembre, temendo per la propria vita, è già partito per Parigi.
“Fra un mese probabilmente otterrò l’asilo politico, ma vorrei tornare a fare il fixer in Iraq”, aggiunge il ragazzo, che sembra non essersi abituato alla vita “quasi normale” di Parigi. “Là ci sono mio padre, i miei amici e ancora tante storie da raccontare. Questo è il lavoro più emozionante del mondo, non voglio rinunciarci”.
Nell’atrio della Maison, dedicato ad Anna Politkovskaia, la giornalista russa uccisa a Mosca nell’ottobre 2006, una donna sulla sessantina, con cappello nero appoggiato sul capo e cappotto di pelle lungo dello stesso colore, aspetta l’inizio del corso di francese. “Dopo aver fornito un tetto, un buono alimentare giornaliero, una carta dei trasporti e una telefonica, la nostra priorità è insegnare loro il francese perché possano continuare a vivere e a lavorare”, spiega Spinau nel suo ufficio ad ampie vetrate di fianco all’ingresso. “Devo essere molto onesto. È mio compito spiegare che è molto difficile tornare a fare i giornalisti in Francia, soprattutto per chi non sa bene la lingua. Non c’è un solo modo di lavorare. Ogni Pase ha regole, consuetudini e codici diversi. Finora solo una decina su 138 ospiti ha continuato a fare il suo lavoro. Gli altri hanno trovato impieghi diversi”.
Con voce sottile l’anziana studentessa che porta il nome di un fiore, Sawsan (lillà), ci dice di essere una scrittrice di Bassora, a sud dell’Iraq, ed ex collaboratrice di giornali. Due anni fa è fuggita perché cristiana: “Se le milizie (gruppi armati di musulmani radicali, ndr.) avessero visto questa mia collana con la croce battista avrebbero potuto anche uccidermi”.
Nell’ultimo periodo la maggior parte degli ospiti della Maison è arrivata dall’Iraq, dove l’anno scorso sono stati uccisi 47 giornalisti e 9 operatori dei media. Il Paese mediorientale si sta ormai svuotando dei suoi reporter, come anche altri luoghi caldi dell’Asia e del sud del mondo: Afghanistan, Eritrea o Myanmar (ex Birmania).
Than Win Htut, arrivato da una sola settimana, sembra molto più giovane dei suoi 39 anni. Forse per i lunghi capelli corvini legati in una coda, i pantaloni sarong color zafferano, le infradito e la t-shirt con il volto di Aung San Suu Kyi, per la quale nutre una profonda ammirazione. “È una santa”, dice senza mezzi termini.
Dopo le proteste dei monaci birmani dello scorso autunno, molte magliette con la stampa della leader per la democrazia, tenuta agli arresti dalla giunta militare, sono state indossate da giovani di tutto il pianeta. “Ho monitorato le ultime rivolte dalla Thailandia, dove sono scappato nel 2002. In Birmania la censura mi impediva di lavorare”, dice Htut, che ha lavorato per Democratic Voice of Burma e Mizzima, due importanti giornali di esuli birmani. “Ho iniziato a scrivere da ragazzino, quando distribuivo di nascosto poesie a tema politico per tutta Rangoon (oggi Yangon, ndr.)”, racconta, dopo essersi seduto a gambe incrociate su un tappeto di bambù e aver fatto partire un cd di musica acustica della sua terra. “Sono arrivato da poco, ma non vedo l’ora di tornare a scrivere della Birmania. In Thailandia potevo documentare la vita dei profughi, ma non avevo i documenti giusti (negati a quasi tutti i birmani, ndr.). Rischiavo continuamente di essere rimandato indietro”.
Spinau dice che finora solo due giornalisti sono tornati nel loro Paese: “La maggior parte se rientra rischia di essere arrestata. Di solito cercano di portare qui i famigliari, ma il procedimento di ricongiungimento dura almeno due anni. Altre volte il contatto coi parenti, mantenuto con internet e col telefono, si perde col tempo”.
Sholah, sceneggiatrice e regista, è giunta in Francia dall’Iran da circa un anno, ma non ha alloggiato alla Maison perché aveva con sé la figlia. Le regole della “Casa” permettono di ospitare solo il giornalista, ma consentono a quelli accompagnati dai famigliari o che hanno già usufruito dei sei mesi di ospitalità di accedere a tutti gli altri servizi: corsi di lingua, assistenza sociale e psicologica, possibilità di collaborare al portale interno L’Oeil de l’exilé, aiuto nelle pratiche per il permesso di soggiorno.
L’atteggiamento umile di Sholah, 35 anni, nasconde coraggio e determinazione: “Sono dovuta fuggire dopo aver fatto un film su una lesbica”, dichiara. “L’avevo intervistata per la prima volta in prigione e dopo dieci anni l’ho ritrovata in ospedale per le fratture inflitte dal marito. L’avevano costretta a sposarsi e lui la picchiava perché non voleva avere rapporti”.
Sholah ha sempre avuto un’attitudine ribelle: “Non ho mai voluto portare l’hijab (il velo, ndr.), ma dovevo farlo per non subire ripercussioni. I miei genitori erano già tenuti sotto controllo perché comunisti. Io ho iniziato a combattere con la penna, ma l’hijab – simbolo dell’asservimento a una concezione mistificatoria del Corano e ai politici – è ancora attorno alla mia mente e attorno al mio cuore. Non so se potrò mai liberarmi da quel senso di oppressione. Spero che almeno mia figlia, che oggi ha sette anni, ci riesca”.
“Per loro il mestiere è una questione primordiale”, dichiara Fanny Chajniot, caporedattrice dell’Oeil de l’exilé. “Scrivono nel tempo che resta dalle faccende burocratiche e vedono cose che noi non vediamo. Fanno un’analisi più neutra di ciò che accade in Occidente e ci avvicinano ai loro temi, spesso poco conosciuti”.
Nel pomeriggio arriva anche Rashika Lindon, kosovaro di 22 anni, per il secondo turno del corso di francese. Vive con il fratello, trasferitosi a Parigi 15 anni fa, ma la Maison lo sta aiutando a ottenere il permesso di asilo: “Sono dovuto fuggire perché ho trasmesso musica serba alla radio kosovara. Per me la musica dovrebbe unire, non dividere”. Lindon abitava a Mitrovica, la città dove si concentra la minoranza serba nel Kosovo a prevalenza albanese. “Volevo che i giovani albanesi-kosovari e serbi potessero ascoltare la stessa musica, ma hanno cominciato a minacciare me e la mia famiglia”, aggiunge il giovane dj e tecnico radiofonico.
Il Kosovo, dichiaratosi indipendente dalla Serbia in modo unilaterale il 17 febbraio 2008, è una delle zone dell’ex Iugoslavia più marchiate dalle divisioni etniche. A Mitrovica, in particolare, dalla fine della guerra nel 1999 la comunità albanese e quella serba vivono divise in due zone, rispettivamente a sud e a nord del fiume Ibar. “Nel mio villaggio – continua il ragazzo – i serbi hanno ucciso 120 persone in tre ore. La mia casa è stata bruciata ed io e la mia famiglia abbiamo camminato per ore verso Mitrovica con altre centinaia di persone. Nel mio Paese c’è ancora molto odio, ma io sogno la pace”.
Alla Maison ci sono ospiti di tutto il mondo e in particolare africani francofoni. Adjim Danngar, vignettista ciadiano di 25 anni, torna spesso alla Maison da quando ha ottenuto l’asilo politico. Ha lasciato il Ciad nel 2004 dopo essersi occupato del Darfur e dei commerci illegali fra la Nigeria, il Camerun e il suo Paese. “L’abbandono della mia terra è stato uno shock a cui penso sempre”, rivela il ragazzo, mostrandoci i disegni esposti alla Casa. “Quando sono arrivato ero solo, ma ho riempito il tempo con le pratiche burocratiche. Qui ho trovato persone con storie simili alla mia. Abbiamo condiviso le nostre esperienze e abbiamo continuato a lavorare grazie a L’Oeil de l’exilé”.
Foutiyou D., mauritano di 37 anni, definisce il suo Paese uno stato razzista e con profonde divisioni fra la comunità arabo-berbera e quella nera, della quale fa parte. “Da quando avevo 18 anni sono stato deportato, torturato, arrestato e rapito per la mia attività di giornalista e difensore dei diritti dei neri. Più volte sono dovuto fuggire in Senegal, dove mi sono formato come reporter. Alla fine nel 2005 mi sono nascosto nella stiva di una nave mercantile diretta a Marsiglia”. Dopo una vita così dura, l’uomo dice però di aver fatto anche esperienze straordinarie: “Sono riuscito a fondare la prima Ong nel sud del Paese, trascurato dal governo, che ha aperto la strada all’ingresso degli aiuti internazionali. Anche se oggi, in esilio, per me è difficile continuare a coltivare sogni, uno posso dire di averlo realizzato”.
Per evitare tensioni fra ospiti di nazionalità, etnie e religioni diverse, Spinau ha vietato il proselitismo politico e religioso: “Ognuno può pregare o coltivare la sua fede politica nella sua stanza, ma non nelle parti comuni. Questa è una delle regole comunitarie più importanti, visto che non ci sono orari o altre proibizioni”. È facile, tuttavia, che si creino più amicizie di conflitti: “Anche storie d’amore e famiglie con bambini. La cosa più affascinante è che la vita non si ferma. Persone completamente distrutte riescono a ritrovare il sorriso”, dice Spinau, prima di tornare al suo lavoro che di solito si protrae fino a tarda sera.