All’Havana tutti sanno dov’è la casa di Juan Carlos Tabìo, il regista più famoso ma anche più critico di Cuba, e fanno quasi a gara per accompagnarti. Con modi delicati e un sorriso accennato, quest’uomo esile di 65 anni ci accoglie nell’appartamento che da sempre appartiene alla sua famiglia, in un viale alberato del quartiere ovest di Vedado. Dalla terrazza si sentono le voci del mercato.
Qualche isolato più in là c’è la gelateria dove ha ambientato il film che lo ha reso celebre in tutto il mondo, “Fragola e cioccolato”. In vista dell’uscita del suo ultimo lavoro, “El cuerno de l’abundancia”, Tabìo ci racconta in esclusiva il suo nuovo film e la sua Cuba a 50 anni dalla rivoluzione castrista, in bilico tra riforme annunciate e speranze di cambiamento.
L’abbondanza nel suo nuovo film è descritta come un miraggio. C’è un riferimento alla realtà cubana?
Il titolo del film deriva da una pasticceria di Havana, dove si svolge la vicenda. Questa pellicola è un ghigno ironico e nostalgico, ma anche un insieme di provocazioni e allusioni affinché gli spettatori diano interpretazioni personali alla storia. Con un film non racconto mai una sola cosa. Per me l’arte narrativa è uno spazio dove la vita si mostra attraverso i personaggi e dice tante cose di cui neppure io sono consapevole.
Ed è verso una ‘abbondanza’ che si dirigono le riforme annunciate dal presidente Raul Castro?
Raul Castro ha promesso una piattaforma politica, in cui il punto più importante è la riforma della proprietà agricola. Una grande quantità di terra non coltivata e in mano allo Stato sarà ripartita fra i contadini. Noi tutti aspettiamo che ciò avvenga e speriamo in un cambiamento strutturale della realtà politica ed economica di Cuba.
Dopo anni di austerità come si può vincere la rassegnazione dei cubani?
L’unico modo per ridare speranza è superare la centralizzazione di tutte le dinamiche sociali. Se si decentralizza, almeno un po’, come dovrebbe accadere nell’agricoltura, Cuba finalmente comincerà a progredire. Per promuovere il benessere sociale serve un controllo dello Stato, ma quest’ultimo non deve essere onnipotente. La produzione del petrolio, per esempio, è giusto che sia nazionalizzata, ma molte altre cose devono mutare secondo le necessità del mercato: il commercio privato, i servizi, la piccola industria.
Se dovesse usare una metafora o un’immagine cinematografica come rappresenterebbe l’embargo degli Stati Uniti, in vigore dal 1962?
L’embargo è un vecchio muro insormontabile che da tempo fa soffrire l’economia della popolazione cubana. Ma anche un mistero: in teoria non si possono comprare prodotti fabbricati totalmente o in parte negli Stati Uniti, anche se ormai a Cuba circolano molti beni che provengono dagli Usa, come uova, pasta, farina, salsa. E infine una trappola per gli stessi Stati Uniti. Molti politici di Washington ormai pensano che sia inutile. Solo i vecchi cubani espatriati in Florida sono favorevoli all’embargo, anche se le nuove generazioni stanno cambiando opinione.
A proposito di Usa, cambierà qualcosa per Cuba adesso che è stato eletto Barack Obama?
La nomina di un presidente afroamericano è sconvolgente, almeno come punto di partenza per una distensione delle relazioni internazionali.
McCain, invece, avrebbe seguito la linea politica di Bush, che rappresenta la forza più retrograda del governo americano. In questo momento negli Usa c’è un’involuzione in diversi aspetti della vita e serve un cambiamento radicale. Bisogna, però, vedere cosa riuscirà a fare Obama, perché c’è sempre un gap fra la piattaforma elettorale e l’attuazione delle riforme. Il presidente americano da solo non decide le sorti degli Usa, dalle quali dipende il resto del mondo.
Il prossimo Capodanno saranno trascorsi 50 anni dalla rivoluzione castrista. Lei, che allora aveva solo 15 anni, cosa ricorda di quel giorno?
(Sgrana gli occhi). L’arrivo dei rivoluzionari ad Havana fu un’esplosione di allegria. Era la fine del governo terribile di Battista con le sue torture e uccisioni. La rivoluzione di Fidel fu popolare, un aspetto che non va perso di vista anche se dopo 50 anni sono cambiate molte cose. Solo una minima parte della popolazione legata a Battista emigrò negli Stati Uniti, seguita da industriali e commercianti perché da lì a poco sarebbe stata abolita la proprietà privata. Le altre classi sociali, anche quella media della mia famiglia, sostennero la rivoluzione. Ricordo l’entrata di Fidel all’Havana da calle 23 e mi venne la pelle d’oca.
E i giovani d’oggi come vivranno questo anniversario?
Le generazioni nate dopo la rivoluzione non hanno vissuto il momento di gloria e allegria del trionfo castrista. In più la situazione cubana oggi è davvero critica. Molte persone vivono male. Non arrivano al punto di soffrire la fame, come si dice, ma non riescono a soddisfare bisogni primari. Hanno cibo razionato, non possono possedere una casa e devono far fronte a tasse molto alte. Io stesso per l’elettricità spendo quasi il triplo del mio salario: 1400 pesos cubani (circa 50 euro). È ovvio che non vivo di ciò che mi dà lo Stato, ma della co-produzione cinematografica con la Spagna. Altrimenti, non potrei neanche offrire un caffè ai miei ospiti.
Com’è cambiata Cuba dai tempi del suo film più famoso “Fragola e cioccolato” del 1993, in cui uno dei protagonisti era gay?
Negli anni Sessanta e Settanta c’è stata una forte repressione degli omosessuali. Esistevano campi di lavoro dove erano mandati tutti i cubani considerati ‘anti-sociali’, tra cui omosessuali, religiosi e dissidenti politici. Anch’io, pur non essendo omosessuale, fui spedito in uno di questi, senza averne mai capito il motivo. Era il 1967, sono rimasto un anno e 4 mesi, e ho visto diversi omosessuali segregati in un’unità speciale. Noi altri, invece, come l’artista Paulo Milanes, eravamo ‘anti-sociali ma non troppo’. (Sorride). Allora non si poteva neppure ascoltare la musica nordamericana e portare i jeans. Un cambiamento lento e graduale è cominciato solo a fine degli anni Settanta e “Fragola e cioccolato” è stato parte di questo cambiamento, dato che fu prodotto dal CAI, un organo di Stato. Adesso, grazie alle nuove tecnologie digitali, si sta affermando un cinema indipendente e decentralizzato. Non c’è più bisogno di tanti aiuti statali e c’è un maggiore movimento di idee. La società è cambiata. (Lunga pausa). Ma non troppo. (Sorride di nuovo)
I suoi film sono molto critici verso Cuba. Come ha evitato la censura o altre pressioni?
Buona parte del nostro cinema, della nostra letteratura e del nostro teatro sono molto critici verso la realtà cubana. Credo che qui gli artisti abbiano guadagnato un loro spazio di espressione perché le autorità non sono più monolitiche. C’è, però, una contropartita: la televisione, la stampa e la radio sono ancora veicoli della propaganda ufficiale. Molte pellicole cinematografiche non sono passate sulla tv cubana, come il mio film “Guantanamera”. Come mai? L’essere umano in generale è contraddittorio, ma il cubano lo è molto di più.