Incontro con l’uomo che nella primavera del 1989 fondò il primo sindacato libero in piazza Tienanmen, durante le rivolte studentesche
A vent’anni dalle proteste di piazza Tienanmen, uno dei suoi maggiori protagonisti ci accoglie per parlare di com’è cambiata la Cina da allora. E’ una fredda giornata di sole insidiato da nuvole grigie al “Festival Torino Spiritualità” e tra i relatori c’è Han Dongfang, il fondatore del primo sindacato libero sulla principale piazza di Pechino nella primavera del 1989. Quel ragazzo, ai tempi 26enne, è diventato un uomo elegante, cortese, pacato. Parla piano scandendo un inglese perfetto e aprendo spesso le mani dalle lunghe dita affusolate. Anche gli occhi sono mobili e vispi: ridono, si stupiscono e si rattristano mentre ripercorre di capitolo in capitolo tutta la sua storia. Han non si distrae mai: per più di un’ora rimane dentro il discorso, per poi congedarsi dispiaciuto quando arriva il momento del suo intervento. In tempi di crisi globale parlerà delle speranze dei lavoratori cinesi, dei quali si occupa dal 1994 attraverso l’organizzazione da lui fondata “China Labour Bulletin”.
Si tratta dell’unica Ong, con sede a Hong Kong, che difende i diritti di operai e contadini cinesi, e informa sulle relative violazioni con un minuzioso monitoraggio.
“Il mio lavoro mi ha salvato la vita”, rivela l’attivista esiliato nell’ex colonia britannica dal 1993, dopo anni di prigione, torture e malattia. “All’inizio Hong Kong fu come una trappola. Ero molto infelice. Venendo dal nord della Cina, mi sentivo un estraneo. A un certo punto, però, ho capito che l’imposizione di starvi poteva trasformarsi nell’occasione di conoscere un altro sistema legale e politico. Quella città riservata e rispettosa degli altri, in bilico tra Oriente e Occidente, era il luogo più adatto per aiutare i lavoratori cinesi. Non avrei potuto farlo se avessi accettato l’asilo politico in Europa o in America. Così sono rimasto, e dopo 16 anni è il posto dove ho vissuto più a lungo. La mia seconda casa”.
Han nasce a Pechino nel 1963 da due migranti delle campagne povere di Shanxi. Con l’inizio della Rivoluzione Culturale è costretto a farvi ritorno al seguito dei genitori che presto si separano. Il piccolo Han cresce solo con la madre, che nel ’71 si ristabilisce a Pechino e mantiene lui e la sorella con lo stipendio di operaia edíle. “Non ho mai dimenticato le mie origini. La mia passione politica in favore dei più deboli nasce dalle mie radici”, dice l’uomo aggiungendo con un sorriso: “Pare strano a dirsi, ma i valori di uguaglianza e giustizia me li ha dati la mia educazione comunista”. Dopo il liceo, l’idea romantica che si possa vivere in armonia sotto il comunismo lo porta ad arruolarsi per tre anni nell’esercito. Presto, tuttavia, si accorge della corruzione nei ranghi militari e comincia a mettere in discussione gli ordini che gli vengono impartiti. Capendo che deve trovare una nuova occupazione, impara il mestiere di elettricista e si fa assumere presso le ferrovie della capitale.
Da lì a Tienanmen il passo è breve. I cinque anni trascorsi a fare l’operaio lo rendono particolarmente sensibile ai discorsi filodemocratici degli studenti che dal 15 aprile 1989 sono riuniti in Tienanmen Square. Quattro giorni più tardi, dopo la dichiarazione della legge marziale da parte del primo ministro Li Peng, Han ha già creato il suo sindacato indipendente sotto una tenda rossa in un angolo della grande piazza. In poco tempo riesce a raccogliere circa 200 adesioni, ma il 3 giugno, inizio del massacro, altri giovani manifestanti lo avvisano che i soldati hanno cominciato a sparare sulla folla. Come una biglia impazzita, si avventura in sella a una bicicletta in una fuga impossibile intorno a Pechino, fino a quando – avendo saputo di essere sulla lista nera dei “21 maggiori ricercati” – si consegna alla polizia. Ripete meccanicamente a sé stesso “non ho fatto nulla di male”, ma quest’azione dettata da idealismo misto a incoscienza e paura, gli costa quasi la vita. In 22 mesi di prigionia, maltrattamenti e scioperi della fame, contrae la tubercolosi, molto diffusa fra gli altri detenuti. A salvarlo è la pressione su Pechino di una campagna internazionale per liberarlo. Quando esce dal carcere pesa 40 chili e ha un polmone del tutto compromesso. Va a curarsi negli Stati Uniti, ma promette a se stesso di tornare in Cina appena possibile.
“E, invece, – racconta l’attivista – non ci misi più piede. Una volta esiliato a Hong Kong, tentai più volte di superare il confine, ma fui sempre rispedito indietro”. Oggi Han è un sopravvissuto che ha sviluppato una visione più realistica della vita: “In vent’anni la Cina è cambiata soprattutto per l’orientamento a un’economia di mercato e per la globalizzazione. Dopo l’89 il governo ha sempre più incoraggiato la popolazione a pensare solo ai soldi. Chi ha cercato di portare l’attenzione su temi sociali e politici è stato arrestato”.
Il tempo delle rivolte sembra lontano, ma ciò non significa che non ci siano conflitti duri con le autorità. “I cinesi non protestano più per motivi ideologici e politici, ma per rivendicare i loro diritti economici. Chiedono che gli vengano pagati salari adeguati e si oppongono a espropri di terreni e case, molto frequenti in tutto il Paese per la creazione di aree industriali”. Secondo Han, fanno richieste così concrete, come la riforma delle tasse, delle pensioni e del sistema scolastico e sanitario, da avvicinarsi a una concezione pragmatica della democrazia. E sul sito del “China Labour Bulletin” (CLB) scrive: “A causa della crisi finanziaria le autorità tendono a chiudere un occhio sulle violazioni dei diritti dei lavoratori. In questo modo vogliono salvaguardare la crescita economica e la stabilità sociale. Bisogna, tuttavia, non dimenticarsi che esiste un ‘Labour Contract Law’ del 2007, cui far riferimento”. Ma lo sapranno i 20 milioni di migranti interni che hanno perso di recente il lavoro e sono dovuti tornare nei luoghi d’origine con le tasche vuote? I rapporti del CLB, scaricabili da Internet, servono proprio a questo: a creare consapevolezza.
Il tema della sicurezza sul lavoro è uno dei più ciccati su www.china-labour.org.hk/en/.
“Morti, malattie e infortuni sono all’ordine del giorno, ma ai capi delle fabbriche sembra non importare perché loro devono produrre al minor costo possibile”, spiega Han. “Le vittime non vengono neppure risarcite, affinché possano curarsi o pagare un avvocato”. A questo punto torna alla sua idea originaria: “Se potessero riunirsi in un sindacato libero, sarebbe tutto diverso. Oggi esiste un sindacato di partito completamente inutile perché i suoi membri sono eletti dal management. Il responsabile del sindacato non è altro che il capo delle risorse umane. I lavoratori, però, scioperano lo stesso e gestiscono da soli le trattative col boss, anche a rischio di essere arrestati. Fino a quando il governo potrà tollerare questo paradosso? Sono sicuro che presto il sindacato di partito scomparirà”.
Una delle missioni centrali del CLB è prevenire e denunciare gli incidenti in miniera. I dati sono spaventosi: nell’ultimo anno 3mila incidenti hanno causato 5mila morti e un numero imprecisato di feriti. Quasi come le vittime di una guerra giornaliera. La colpa ancora una volta è di una crescita economica sregolata che dipende in larga misura dall’energia prodotta dal carbone: “Nelle miniere si produce oltre il livello massimo di rendimento degli operai e della struttura perché la domanda di carbone è altissima”, insiste Han. “Solo che, quando si verificano incidenti, le autorità chiudono le miniere invece di ristrutturarle secondo gli standard di sicurezza. Per mantenere i prezzi stabili, però, le altre miniere devono produrre di più, aumentando il rischio di nuovi incidenti”. Contro questa visione miope il CLB propone che i minatori possano organizzarsi in comitati di sicurezza per monitorare le condizioni di lavoro. È successo spesso che, sebbene ci fossero problemi nei tunnel di scavo, gli operai non uscissero per paura di essere licenziati. In molti casi è così che hanno perso la vita.
Internet è molto importante per reperire informazioni sulle condizioni dei lavoratori cinesi. Han spiega che esistono diversi siti e giornali online che danno spazio alle lamentele dei lettori: “Il governo cerca di censurarli, ma non può bloccarli tutti. Dovrebbe oscurare completamente la Rete, ma sarebbe assai controproducente per una potenza mondiale”.
L’altro ponte con la Cina di Han è il programma che conduce su Radio Free Asia, finanziata in parte dal Congresso statunitense. Tre volte a settimana il direttore del CLB riceve le chiamate e legge le lettere dei lavoratori cinesi cercando di dare loro consigli e un aiuto concreto: “Con i soldi che raccogliamo in tutto il mondo paghiamo gli avvocati che devono difendere i nostri ascoltatori. Attraverso le cause legali possiamo educare i datori di lavoro affinché migliorino le condizioni delle fabbriche”. Molte delle aziende in cui sicurezza e salute non sono preservate producono per marchi occidentali, ma Han ha scelto di non occuparsi di questo aspetto: “Il modo più realistico per migliorare le condizioni dei lavoratori cinesi, non è condurre una campagna contro le multinazionali, ma perseguire legalmente chi viola la legge”.
Il programma di Han è ascoltato da decine di milioni di persone. Lui però, padre di quattro figli, non ha più paura dell’impatto delle sue azioni. Dice di non essere un dissidente, ma solo qualcuno che vuole rendere migliore l’esistenza dei lavoratori con interventi concreti. “Non sono né una vittima né un temerario, ma solo il frutto del mio destino”, afferma con la tipica saggezza orientale e rifacendosi agli insegnamenti del protestantesimo, religione che ha abbracciato durante il suo soggiorno negli Stati Uniti. La Cina gli manca, anche se fuori Hong Kong il CLB non potrebbe esistere. Dopo la famiglia, il lavoro è tutta la sua vita. E nell’anno del bue, metafora della determinazione, non può che sentirsi ancor più motivato a portare avanti la sua missione.
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