Per arrivare a casa di Domique Lapierre e sua moglie bisogna attraversare pinete e ulivi nel sud della campagna provenzale. L’ultimo chilometro è sterrato e s’inerpica in una macchia mediterranea intatta da decenni.
“In 50 anni che ci vivo hanno costruito solo una casa”, dice lo scrittore e filantropo francese indicando un rustico rosa chiaro, che pare tinto di fresco. Alla nostra destra c’è il meraviglioso pino marittimo di cui l’autore ha parlato in “Mille soli”, una sorta di autobiografia. Da quando aveva 29 anni e venne ad abitare qui, il grande albero è stato “le sue radici e la sua benedizione”, come si legge nel libro. “Loro, invece, sono i miei tre cavalli a cui ogni giorno dò da mangiare. Il dovere mi chiama, scusatemi”. Al suo ritorno, dopo pochi minuti, proseguiamo sul selciato verso l’ingresso. Lapierre ha il passo veloce e l’attenzione sempre rivolta alle faccende da sbrigare nella tenuta.
È bellissimo qui. Molto calmo.
Eh sì. Questo è il mio studio, ma attenzione alle carte. Le lascio ovunque. Meglio sedersi in veranda: non è magnifico?
La vista su boschi e vigneti toglie il fiato.
Mi godo un momento di tranquillità. Questo è un periodo terribile per me, perché in due giorni devo correggere le bozze americane di “Un arcobaleno nella notte” (l’ultimo libro sulla nascita del Sudafrica, ndr.). Chissà se andrà bene.
Allora facciamo subito un salto indietro nel passato. Com’è stato il suo primo incontro con l’India?
Durò quattro anni, il tempo necessario per fare un’inchiesta su come l’India aveva ottenuto l’indipendenza dall’Impero britannico. Viaggiai anche in Gran Bretagna e Pakistan, occupandomi di tutti i protagonisti di questo avvenimento storico. Fu appassionante, perché si trattava di indagare sul Mahatma Gandhi, un gigante della storia del mondo, su Lord Mountbatten, l’ultimo governatore generale dell’India, sui maragià, sugli assassini di Gandhi, ma anche su guidatori di risciò, contadini poverissimi e su chi rimase dietro le quinte. Intervistai 1200 persone di tutte le classi sociali. Fu l’inizio della mia storia d’amore con l’India. Tutti gli intervistati mi accolsero con generosità e gentilezza tali che, quando “Stanotte la libertà”, scritto con Larry Collins, divenne un grande successo, dissi a mia moglie che dovevo dimostrare la mia riconoscenza al popolo indiano.
Perché ha rivolto la sua gratitudine soprattutto a Calcutta, ormai la sua seconda casa?
L’avevo visitata durante l’inchiesta e ne ero rimasto impressionato perché era la città in cui Gandhi il 15 agosto 1947, giorno dell’indipendenza, era rimasto per cercare di mantenere la pace tra indù e musulmani. Mountbatten l’aveva inviato lì dicendogli ‘è la mia forza di polizia in un solo uomo’ e Gandhi aveva risposto con una promessa agli abitanti di Calcutta: ‘Se continuate a uccidervi, cercherò di impedirlo fino alla morte’. Poi visitai le baraccopoli e capii che se volevo dare qualcosa all’India dovevo fare qualcosa per Calcutta.
Quando ha deciso di dedicare la sua vita ai lebbrosi?
Durante l’incontro con Madre Teresa. Avevo in tasca 5mila dollari e le dissi: ‘Porto questi soldi per un’istituzione che si occupi di bambini con la lebbra’. Lei mi ha guardò e con il suo accento albanese rispose che era Dio a mandarmi. Mi presentò James Stevens, un inglese che negli slum aveva fondato un rifugio per curare, educare e dare un mestiere ai piccoli lebbrosi. Quest’uomo era una Madre Teresa anonima che nel 1975, quando io e mia moglie Dominique arrivammo da lui, non aveva più soldi per l’ambulatorio. Un’isola di speranza e amore nel cuore della peggiore miseria stava per scomparire. A quel punto gli feci una promessa che poteva sembrare assurda: “Non chiuderà mai”.
Così è cominciata l’avventura della sua associazione umanitaria?
Sì. Cominciammo a operare nella “Città della gioia”, nome paradossale di una baraccopoli infinita di 75mila abitanti. Rimasi due anni e da questa esperienza nacquero il libro e poi il film omonimi.
Perché questo suo libro del 1984 ebbe e continua ad avere tanto successo?
E’ diventato un libro culto, pubblicato in 9 milioni di copie. Ho ricevuto finora 200mila lettere e altre arrivano ogni giorno. Il segreto di tanto successo forse è che non descrive la miseria, ma eroi del nostro tempo che trionfano nonostante la diversità. Non fa prediche, ma racconta coloro che sono più grandi delle avversità.
Lei parla spesso di eroi, piccoli e grandi. Cosa l’ha colpita di Madre Teresa?
La donna minutissima, devota, che con la sua sola presenza cambiava il mondo.
Chiunque le stesse accanto, sentiva di non essere più solo e di poter far qualcosa per il prossimo ovunque si trovasse. Quando qualcuno mi chiede come fare ad aiutare gli altri, gli dico che non è indispensabile andare a Calcutta. Basta scrivere una lettera a un carcerato, per esempio.
Lei ha sempre scritto delle ingiustizie dell’India. Dopo aver pubblicato “Mezzanotte e cinque a Bhopal” nel 2001, sulla tragedia dell’Union Carbide, è tornato in quella città?
Certo. Lì io e mia moglie abbiamo costruito una clinica ginecologica per donne poverissime contaminate dal gas tossico. Tuttora hanno tumori all’utero e partoriscono bambini malformati. Per il venticinquesimo anniversario (il 3 dicembre 2009, ndr.) saremo da loro, per non dimenticare. In tutto questo tempo il governo non ha fatto nulla. Ogni volta che piove, centinaia di tonnellate di flussi tossici, rimasti ai piedi della fabbrica, penetrano nella falda freatica da cui proviene l’acqua che la gente beve.
Alcuni dicono che è colpa della globalizzazione se accadono queste catastrofi, soprattutto in India e nel restante Sud del Mondo.
Non bisogna, però, essere paranoici. La costruzione di fabbriche straniere è una buona idea. I contadini indiani hanno bisogno dei pesticidi, se non nocivi per l’ambiente e a buon mercato. Il problema dell’Union Carbide è stato che doveva produrre troppo e a basso costo. Hanno rimpiazzato i migliori ingegneri americani, i più cari, con ingegneri locali non abbastanza formati. Per economizzare hanno soppresso la refrigerazione del gas che doveva essere mantenuto a 0 gradi.
Secondo l’ong indiana, Navdanya Trust, 200milioni di indiani non hanno cibo a sufficienza. Lei crede nella “Shining India”?
Ho applaudito alla “Shining India”. Gli indiani possono essere molto competenti e coraggiosi. Mi rende felice sapere che sono i leader dell’informatica. Ma il dramma dell’India è che ci sono due Indie. Quella che risplende e quella di 300milioni di persone che vanno a dormire con lo stomaco vuoto, di 80 milioni di bambini che non andranno mai a scuola, dei contadini indebitati che si suicidano. Bisogna impedire che questo divario aumenti.
È vero che le autorità non vogliono parlare dei problemi indiani?
Non amavano neppure Madre Teresa. L’accusavano di far troppa pubblicità alla povertà dell’India. Nessun governo, del resto, vuole che gli stranieri vadano a casa sua per denunciarne le ingiustizie. Sfortunatamente i Paesi poveri hanno un sistema politico ed economico che si appoggia in gran parte sulla corruzione. Per mandare un figlio nella scuola pubblica un padre dovrebbe pagare una mazzetta, ma non ne ha i mezzi.
Il Sud del Mondo spesso accusa le ong internazionali di colonizzarlo e sfruttarlo. Ma se è così corrotto, come può salvarsi da solo?
La tecnica del microcredito, ad esempio, è formidabile se ben gestita. Se si riesce a dare a tutti i poveri una piccola somma che consente loro di ritrovare una dignità e di avviare un’attività, si può contenere una gran parte della povertà. A condizione, però, di non obbligarli a rimborsi eccessivi. Alcuni si sono uccisi per l’indebitamento e per questo il banchiere pachistano Muhammad Yunus, che ha inventato il microcredito, è stato criticato. Noi puntiamo soprattutto sulle donne, da cui dipende il futuro dell’India. Hanno un’energia, una capacità di sopravvivere e un’intelligenza formidabile. In 3mila villaggi abbiamo dato loro un microcredito per acquistare alcune galline o del tessuto. Ebbene, il 94% del prestito ci è stato già restituito singolarmente e per il restante 6% queste donne si sono riunite per far fronte al debito. Nella nostra gestione, inoltre, non ci sono spese di funzionamento. Se un donatore ci dà 100 euro, 100 euro partono, arrivano e vengono convertiti in rupie al miglior tasso di cambio. Nessuno prende un salario e non ci sono spese di viaggio. Esaminate i conti della Croce Rossa o dell’Unicef, e vedete la percentuale attribuita alle spese di funzionamento, allo stipendio del presidente, all’affitto di aerei speciali e fantastici uffici. Noi facciamo tutto da qui, gestendo un budget annuale di 2 milioni e mezzo di euro. Poco in confronto, ma funziona.
C’è corruzione anche nelle grandi organizzazioni umanitarie?
No. Parlerei più di negligenza. Il presidente della Croce Rossa non viaggia di certo in classe economica.
Qualcosa, dunque deve cambiare nelle ong e agenzie straniere?
Assolutamente sì. Abbiamo visto come alcuni miliardi donati dopo lo tsunami non siano stati ancora utilizzati. Molti soldi sono stati impiegati in progetti assurdi.
Un funzionario del Palazzo di Vetro non può sapere quali sono i bisogni primari di un contadino indiano. La questione principale è di distribuire correttamente la generosità del mondo. Come? Bisogna andare sul posto. Collaborare con le ong locali e monitorarle di continuo.
Arundhaty Roy dice che l’India con la sua guerra in Kashmir, le sue disparità sociali, le discriminazioni fra musulmani e indù, non è una vera democrazia. È d’accordo?
Quando ci si confronta con la vera miseria, è difficile parlare di democrazia. Bisogna riconoscere che l’India ha concesso il voto a tutti, ma resta un Paese di grandi discriminazioni, fra indù, musulmani, fuori casta e appartenenti alle caste. Si dovrebbe imparare dagli abitanti della “Città della Gioia”, che malgrado la povertà si aiutano a vicenda. Ancora una volta gli ultimi riescono a insegnarci l’uguaglianza, la fraternità e in un certo senso la democrazia.