Il fotoreporter Livio Senigalliesi si racconta. Dalla guerra in Iugoslavia alla rotta balcanica. E grazie a due video, uno realizzato con il giornalista Raffaele Masto.
L’assolo di una chitarra elettrica tagliente ci accoglie, anticipando l’energia di chi abita questa casa milanese arrampicata su tre piani. L’intervista con cui Livio Senigalliesi racconta a LifeGate la sua lunga carriera di fotoreporter assomiglia a quel brano musicale. Come il blues-rock All over again di The Stumble, è un’immersione fatta di imprevisti, rivelazioni sconvolgenti, dolore, pause e riprese, humour e tanta anima.
Sparsi un po’ ovunque, ma ordinati, gli scarponi da inviato di guerra, le fototessera di quand’era in prima linea, una macchina fotografica in pellicola nella custodia di pelle consumata. E, su un tavolino, il libro Diario dal fronte che presenterà il 19 settembre alla rassegna ColornoPhotoLife, dove qualche giorno prima, domenica 13 settembre, verrà anche inaugurata la sua mostra antologica Effetti collaterali.
“Questo libro è uscito dai miei incubi”, dice Senigalliesi. La sua voce grave diventa lieve, vibra. “Ma è stato catartico”, aggiunge, con ritrovato vigore. A 64 anni, l’autore sottolinea di averlo autoprodotto per non subire condizionamenti, e che la versione in inglese “War reporter” è stata acquisita dal Tribunale penale internazionale dell’Aja.
Ad attirare l’attenzione dei giudici sono stati i fatti e i nomi riportati sulla guerra nell’ex Iugoslavia, seguita dall’inizio alla fine, per dieci pericolosissimi anni. Autodidatta, appassionato di storia, Senigalliesi si è salvato dalla morte più volte e non si è mai accontentato di facili risposte. Come l’inglese Don McCullin, per il quale nutre enorme ammirazione, si è sempre spinto nel cuore di tenebra degli eventi: dal crollo dell’Unione Sovietica ai conflitti di Bosnia e Kosovo, dall’Afghanistan all’Iraq, passando per il Libano e la regione dei Grandi laghi in Africa. Questi ultimi percorsi con l’africanista, inviato di Radio Popolare e amico recentemente scomparso, Raffaele Masto.
Tante le verità scomode scoperte. Più di fake news: enormi bugie, manipolazioni, semplificazioni, ossimori come “guerra umanitaria” che hanno segnato la storia contemporanea. A partire da uno dei suoi ultimi reportage, da cui ha tratto il volume “Rotta balcanica. Storie di migranti in fuga da guerra e povertà”. Livio Senigalliesi esordisce con una terribile denuncia: “Nel 2016 ho percorso 1.600 chilometri, dalle isole greche fino a Gorizia. Collaborando con l’ong Medici senza frontiere, mi sono imbarcato a ridosso della costa turca e sono risalito a Idomeni, presso il confine greco-macedone, e poi fino a quello serbo-ungherese. Accampato con i profughi, raccoglievo le loro storie. Alcuni sopravvissuti dicevano di aver subito torture ed essere scampati al traffico di organi. Molti rifugiati si erano messi nelle mani di gente senza scrupoli che prometteva di aiutarli in cambio di tangenti. Li portavano, invece, in una ‘casa bianca’ dove venivano picchiati e marchiati a fuoco con una S. Chi non aveva altri soldi, passava alla cantina, dove veniva smembrato…”.
In Italia la sua testimonianza è stata riportata sul Corriere della Sera da Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International. Sa se questo orrore macedone continua?
Non ci sono prove, ma si suppone di sì. E, dalle miei fonti balcaniche, so che le torture vengono inflitte anche in Croazia. Spogliano i migranti a 20 gradi sotto zero e li abbandonano nel bosco, per farli morire assiderati.
Chi compie le torture?
I trafficanti, ovvero dei malviventi che facevano i borseggiatori sugli autobus e poi hanno fatto ‘il salto di qualità’ nel grande business delle migrazioni. Non si sporcano più le mani con la droga o con le armi. Grazie a un migrante, guadagnano di più, in nero, senza rischiare nulla. Un attimo dopo quella persona può essere catturata dalla polizia o affogare in mare, ma loro si sono già presi i suoi soldi.
A volte i mezzi d’informazione di massa dipingono i trafficanti come individui “che non hanno scelta”. Questa narrazione va capovolta?
Sì. I trafficanti sono delle non-persone. Circa 60mila, un esercito di criminali di tutte le nazionalità dei paesi da cui si fugge. Le rotte sono tante e lunghissime. Il mio ruolo di giornalista non mi permette di esprimere un giudizio morale, devo attenermi ai fatti. E, avendoli conosciuti, so che sono tutti dei tagliagole, che hanno approfittato della situazione. Per il criminale di guerra serbo Arkan, l’eroe del presidente serbo Slobodan Milošević, la guerra in Iugoslavia è stata la grande occasione di fare bottino. I trafficanti che dicono di non avere scelta, mentono. Anche quelli dei ranghi più bassi, la manovalanza. Violentano chiunque, bambini, donne, uomini. Nei lager libici prendono a bastonate le mani dei prigionieri aggrappati alle sbarre. Chi li conduce sul barcone, ha diritto di vita o di morte. La narrazione più soft ci fa comodo e, soprattutto, non trova riscontro sul terreno. Devi andare veramente all’inferno per capire.
Lei all’inferno ci è andato più volte.
Ho avuto sotto gli occhi un olocausto di cui prima o poi dovremo rispondere. Migranti mai arrivati a destinazione. Morti senza nome. Non comprendiamo la portata, che cosa significhi morire di sete nel deserto o affogare in mare. Io lo so, ho cercato di salvarli e mi sono scivolati dalle mani.
Non solo torture e traffici in Macedonia e Croazia, in Ungheria ha scoperto un’altra mostruosità. Può raccontarla?
Sempre nel 2016, travestito da medico, sono salito su un’autoambulanza che di notte, a luci spente, provava ad avvicinarsi ai profughi lungo i 70 chilometri del ‘muro’ fatto costruire dal premier ungherese Viktor Orbán. Dal confine serbo siamo riusciti a varcare questa terra di nessuno. C’erano circa 70mila migranti, afgani, pachistani, curdi, siriani. Alcuni accampati in tende di fortuna da loro stessi assemblate. I medici curavano le ferite e portavano pacchi di sostentamento. Si trattava di una zona abusiva militarizzata. La polizia ungherese poteva sparare a vista. E a dieci chilometri da lì, a Nagyfa, si diceva che ci fossero e ci siano ancora dei campi di concentramento.
Dei lager oggi, nel cuore dell’Europa, senza che nessuno faccia nulla?
Sì, anche se la questione è avvolta nel mistero. Chi riusciva a entrare in Ungheria, pagando i trafficanti, rischiava di esservi rinchiuso. Un giorno, grazie al passaporto italiano, ho oltrepassato di nuovo la frontiera. Accompagnato da un taxi, ho seguito una camionetta militare che ha caricato donne e bambini, i più deboli. Gli uomini restavano giù; le famiglie venivano divise. Ma un soldato armato di kalashnikov ci ha fermati e il carico con i migranti è sparito in un bosco di betulle. L’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, ndr) e la Croce rossa non potevano accedere a quell’area segreta, ma pare che da quella no man’s land non sia più uscito nessuno.
In più di quarant’anni di reportage, lei è arrivato al cuore della verità. Come ha fatto?
Mi sono serviti rigore e tanti anni di studio. Se non avessi trascorso trent’anni in zone di guerra e non avessi visto i luoghi dai quali i migranti fuggono, non riuscirei a capire i loro drammi quando arrivano sulle nostre coste o quando li vado a incontrare ai confini con la Bulgaria o la Grecia. Se provengono da Herat o Kandahar, in Afghanistan, dico loro qualche parola in pashtu o in urdu. ‘Allora sai da dove veniamo’, mi dicono. Si fidano e parlano. In Occidente c’è un muro di gomma fatto di violenza, incomprensione e mancanza di solidarietà. Dopo tanta disperazione, questa è la cosa che fa loro più male.
Figlio di una Sesto San Giovanni proletaria e di una madre partigiana, ha sempre avuto questa propensione a comprendere gli altri?
Agli inizi ero un ragazzo pieno di ideali e con una grande voglia di cambiare la società. Appena tornato da militare, sono andato a lavorare in una ditta di Cinisello Balsamo. Scaricavo camion dalla mattina alla sera.
Ride
Poi, ho fatto dieci anni di gavetta giornalistica in Italia, occupandomi di questioni sociali. Un lungo periodo necessario a crearmi il supporto tecnico e ad apprendere il metodo di comprensione degli eventi. Fotografavo e scrivevo per Il Manifesto, per cui ho svolto il praticantato. Documentavo le manifestazioni contro la guerra in Vietnam e quelle operaie.
Come esordisce negli esteri?
Nel 1986 per seguire la perestrojka (ristrutturazione politica, economica e sociale per instaurare uno Stato di diritto socialista senza negare i valori fondamentali sovietici, ndr) di Michail Gorbačëv. Mi sono trasferito a Berlino Est, base strategica per documentare i cambiamenti in atto nell’Europa orientale e in Unione sovietica. Da lì compio i miei primi viaggi esplorativi, a Mosca, in Romania… l’accredito di un giornale filocomunista mi ha spalancato le porte in quell’area.
E, in anticipo su tutti, nel 1989 è a Berlino quando cade il muro. Come si fa ad arrivare per primi sulla notizia?
Si fiuta il cambiamento e si va sul posto per studiare e capire. Quando accadono gli eventi si è pronti. Vivere due anni nella Ddr (Repubblica Democratica Tedesca) è stato indispensabile per raccontare il crollo del muro.
E nell’agosto 1991 solamente lei e il fotografo Peter Turnley di Newsweek vi trovate dentro il Cremlino mentre Gorbačëv viene portato via. Come capì subito che si trattava di un golpe anomalo?
Ah, che storia… Io mi trovavo lì in quanto comunista, mentre Turnley perché era troppo potente! L’allora corrispondente de il Manifesto, Astrit Dakli, mi chiamò, dicendo di partire subito perché avrebbero potuto chiudere gli aeroporti. Stava per precipitare tutto. I moscoviti lo sapevano, non chi abitava fuori dalla capitale. Ho intuito che era un golpe anomalo, guardando gli occhi spalancati di Gorbačëv mentre sei energumeni lo circondavano. Era l’ultimo atto di una faida interna tra chi voleva le riforme della perestrojka e chi invece, supportato da potentati stranieri, mirava alla dissoluzione totale dell’Unione Sovietica. Quando uscii nella piazza Rossa fotografai Boris Eltsin, uno sconosciuto che faticava a reggersi in piedi a causa del tasso alcolico. Sventolava la bandiera russa, non quella sovietica, per aizzare la gente verso il cambiamento, cioè la fine dell’Urss, senza un passaggio democratico, un voto del parlamento. Tre giorni più tardi Eltsin obbligò Gorbačëv a firmare sancendo la fine del comunismo.
Nel suo libro parla di grandi bugie. Fra queste, l’idea che la democrazia si realizzi rapidamente.
Una favola che si è riccontata troppe volte. In Libia, per esempio, l’uccisione del leader Gheddafi non ha portato alla democrazia. La fine della dittature avviene quasi sempre con la violenza e con la forza. Spesso in un attimo, con dei potentati stranieri che approfittano di un momento di fragilità e coprono le spalle al nuovo governo fantoccio. Ma perché nasca una democrazia, occorre tempo, più generazioni. Eltsin è stato manovrato dagli Stati Uniti, dalla Nato e dalla Cia. Si conoscono i nomi di petrolieri e nuovi ricchi che avevano già portato fuori dalla Russia tutti i loro averi per crearsi un nuovo profilo. Anche la ‘guerra dei 5 giorni’ fra Russia e Georgia, nell’agosto 2008, è stata un marchingegno. L’ex presidente Mikheil Saak’ashvili è figlio di una potentissima famiglia di georgiani basati negli Stati Uniti. È cresciuto negli Stati Uniti ed è stato mandato dalla Cia ad addestrarsi nel suo quartiere generale di Langley. Come lui, viene tirata fuori dal cilindro l’ex premier ucraina Julija Tymošenko. Questi personaggi servivano alla Nato per spostare le proprie basi sempre più vicino ai confini russi.
L’apertura a Est, dunque, che cosa ha portato?
Bloccando le straordinarie riforme di Gorbačëv, solamente un grande mercato di milioni di persone. Il capitalismo si è imposto su facili prede. Agli strateghi dei cambiamenti, escluso l’artefice della perestrojka, non importava delle loro libertà, ma che consumassero. L’ho capito subito dopo il crollo del muro di Berlino. Migliaia di polacchi, russi, ucraini arrivavano ogni giorno con i treni da est per andare al mercato dei turchi e comprare ciò che non avevano. ‘Vado a prendere delle banane per i miei nipoti, perché non sappiamo che sapore hanno’, mi disse una donna. Il sistema comunista seguiva i cittadini dalla culla alla tomba. Lo stato garantiva istruzione, cure, impiego, ma proibiva tutto ciò che era permesso in Occidente. Nell’86 l’Est sembrava fermo al 1945. Gli abiti erano di quell’epoca. I negozi vendevano due aringhe del Baltico e quattro patate, con l’eccezione dei fiumi di vodka. È chiaro che desiderassero di più, dei blue jeans, ascoltare Bob Dylan. Un esempio: oggi in Romania non c’è democrazia, ma solo la possibilità di emigrare per lavorare come badante o operaio, con guadagni dieci volte superiori a quelli di Bucarest. E, così, è finita veramente la seconda guerra mondiale.
Un giornalista non può raccontare il presente se non conosce la storia. Grazie ai suoi studi è riuscito a districarsi per dieci anni in Iugoslavia?
Sì. La mia passione per la storia è nata prima di quella per la fotografia. La Iugoslavia era vicina geograficamente, ma quasi incomprensibile. Una terra di mezzo, che aveva detto no all’Unione Sovietica di Stalin ed era leader dei Paesi non allineati. La guerra si spiega con quanto accaduto a partire dal 1980, dopo la morte di Tito che era riuscito a tenere insieme sei repubbliche diverse ma affini. Per dieci anni i media diffondono una propaganda feroce nella quale ciascuno incolpa l’altro di ciò che è accaduto ai tempi della seconda guerra mondiale. E nel maggio 1991 è bastata una scintilla, l’uccisione di alcuni poliziotti croati a Borovo Selo, per far ripartire i conflitti. Come fosse, ancora una volta, il 1945.
La versione inglese del suo libro è stata acquisita dal Tribunale per i crimini di guerra dell’Aja. Se lo aspettava?
Se vai così vicino al fuoco… Ho sempre pensato di dover documentare i fatti senza esprimere opinioni. Non sposare mai una causa, ma raccontare tutte le parti in conflitto, i serbi, i bosniaci, i croati, i criminali di guerra, i cecchini, i civili. La guerra è fatta di sfaccettature, traditori, gente che passa da una parte all’altra, che vuole solo fare bottino. Ma non mi aspettavo di essere contattato dall’Aja; è come un premio alla carriera.
A pagina 57 di “Diario dal fronte” scrive: “Srebrenica ai serbi in cambio di Sarajevo ai bosgnacchi? Nessuno ammetterà mai una verità tanto cruda, ma in una guerra così sporca tutto è possibile”. Perché alcune verità risultano così scomode da non venire nemmeno rivelate?
I manovratori delle guerre sono vari e possono trovarsi a molti chilometri di distanza. Le cause risalgono a tempi lontani. E in gioco ci sono degli affari enormi. Sul massacro di 8mila musulmani bosniaci a Srebrenica posso dire che hanno lasciato che accadesse. Faceva comodo a tutti. Le Nazioni Unite erano stanche di proteggere l’enclave. In più, serviva come merce di scambio fra Sarajevo, capitale della futura Bosnia musulmana, e una zona che i musulmani non avrebbero mai potuto controllare. Un dito di 70 chilometri fra le montagne, importante per le miniere d’argento.
E, poi, ci sono le manipolazioni dei mezzi d’informazione…
Quello dei mezzi d’informazione di massa è un campo di guerra parallelo. Si usano persino delle agenzie di pubblicità o propaganda. La Serbia, militarmente forte, ha vinto sul campo, ma ha perso la guerra della comunicazione. Invece, croati, bosniaci e kossovari hanno usato strategie di marketing per convincere l’opinione pubblica mondiale di essere le vittime. La guerra è più complessa e talvolta le vittime diventano carnefici. Ma questa complessità non è compresa dal vasto pubblico. Per i media è più facile sposare una causa. Così i serbi resteranno per sempre ‘cattivi della storia’. I croati, da parte loro, si sono rifatti a un vecchio passato filonazista e nella nuova bandiera della Croazia indipendente hanno fatto inserire gli stemmi del governo di Ante Palevic (1941-1945), alleato di fascisti e nazisti che aveva fatto uccidere 700mila serbi.
Lei è stato il primo giornalista a scoprire il lager di Jasenovac, una “Auschwitz” croata?
Sì, nel 1991. Questo campo attivo fra il 1941 e il 1943 era stato cancellato dalla storia, con l’aiuto dell’allora vescovo francescano di Zagabria, Alojzije Viktor Stepinac, del quale papa Francesco ha rallentato la canonizzazione. I serbi stavano conducendo un’offensiva in Croazia per riconquistare i luoghi di frontiera, i cosiddetti krajina, contesi ai tempi dello scontro fra l’impero ottomano e quello asburgico. Seguendo i paramilitari serbi di Arkan, con un mazzo di accrediti al collo, mi trovavo in primissima linea. Accanto al diavolo. E i profughi serbi mi dicevano: ‘Tu non puoi capire, italiano. Questa è la fine della seconda guerra mondiale. Tu non conosci la nostra storia. Se non sai cos’è Jasenovac, non sai perché combattiamo’.
Un’altra grande bugia di cui scrive è “la guerra umanitaria” del Kosovo. Quali misteri?
In Iugoslavia si diceva, riferendosi ai combattimenti contro l’impero ottomano: ‘Tutto è partito in Kosovo, e tutto finirà in Kosovo’. Significa che era ‘incedibile’, in quanto culla della Chiesa ortodossa, come Gerusalemme per gli ebrei o il Vaticano per i cattolici. Tuttavia, a fine anni Novanta, il 70 per cento della popolazione era albanese. L’autonomia di cui godeva, non bastava più. Si è formato l’Uck, Ushtria Çlirimtare e Kosovës (Esercito di liberazione del Kosovo), inserito dagli Stati Uniti nella lista nera delle organizzazioni terroristiche. Ma nell’agosto del 1998 la situazione si capovolge. Siamo al culmine dei combattimenti fra esercito di Milošević e paramilitari albanesi dell’Uck. Ma la ricchissima diaspora albanese negli Stati Uniti spinge affinché Washington intervenga contro i militari di Milošević. Il navigato diplomatico statunitense Richard Holbrooke si reca segretamente in Kosovo e si siede a parlare con l’attuale presidente kosovaro, Hashim Thaçi e gli altri capi dell’Uck.
Una trattativa con punti oscuri…
La volpe americana Holbrooke tratta con gli ex nemici. Aiuterà l’Uck a raggiungere l’indipendenza in cambio di una base militare. Thaçi – interrogato all’Aja lo scorso luglio con altre nove persone per crimini di guerra e contro l’umanità – godrà di un supporto di intelligence, satellitare, strategico, tattico. Secondo l’accordo, le armi arriveranno all’Uck dalla Croazia. A preparare i bombardamenti della Nato, la cosiddetta ‘guerra umanitaria’, giungono gli osservatori di pace dell’Osce. In realtà, sono tutte spie con l’aspetto di robocop, che davanti alle file di profughi non muovono un dito. La coalizione, di cui fa parte l’Italia, conduce una guerra senza sapere il perché. La chiamano umanitaria, e usano la carta religiosa a difesa dei musulmani, per farla digerire come giusta. In realtà, i civili in fuga erano laici, mai stati in moschea. Dopo gli attacchi dal cielo, entrano le truppe di terra della Nato. Duecentomila serbi saranno costretti a emigrare verso nord. La Nato causa uno sfollamento forzato e fa piazza pulita della minoranza serba, chiudendo gli occhi davanti alla distruzione di 100 monasteri ortodossi.
Nell’Africa dei grandi laghi, che ha raccontato in un documentario con il compianto Raffaele Masto, tutto è collegato: paesi diversi, conflitti, guerriglie, traffici di risorse, profitti delle multinazionali. Ma la narrazione dei media è frammentata. E’ un esempio di semplificazione?
Certamente. Emblematico è il caso del Ruanda. Dopo il genocidio della minoranza tutsi da parte degli hutu, la sua capitale Kigali è diventata il centro mondiale del commercio di diamanti, oro, coltan depredati nella giungla del vicino Congo. Quella del presidente tutsi, Paul Kagame, al potere dalla fine dei massacri del 1994, è una durissima dittatura militare che sostiene i guerriglieri del Kivu e dell’Ituri, dove si trovano le miniere dei metalli quotati alla Borsa belga di Anversa. I paesi più ricchi la sostengono perché hanno bisogno di queste risorse. Il coltan per la telefonia e gli hardware si trova solamente lì. In Congo tutte queste materie prime non valgono niente perché non si mangiano. E i potenti del lusso o dell’hi tech non si preoccupano degli schiavi che li estraggono.
Non esiste un germe di new economy sostenibile, come nel settore dell’abbigliamento e dei gioielli.
Le multinazionali dell’hi-tech non hanno alcun contatto diretto con quella realtà. I procacciatori sul terreno sono trafficanti libanesi, esperti del settore. Sanno come comandare e armare i guerriglieri che sorvegliano le miniere, destabilizzando e conquistando altre zone.
In questi giorni ricorre il 19esimo anniversario dell’11 settembre. Nel suo libro ricostruisce con lucidità il ruolo dei fondamentalisti islamici, tornando in Bosnia…
Le basi di al Qaeda in Europa si trovavano in Bosnia e si erano formate ai tempi della guerra nell’ex Iugoslavia. I miliziani venivano da Arabia Saudita, Qatar, Cecenia, Emirati Arabi, Afghanistan, Iran, Egitto ecc. Quella di Bočinja era la più nota e pericolosa: un pezzo di Arabia Saudita su una collina a cento chilometri da Sarajevo. Dopo gli accordi di pace di Dayton (che sancirono la fine della guerra di Bosnia nel 1995, ndr), i mujaheddin se ne sarebbero dovuti andare. Invece, gruppi di volontari locali e stranieri hanno ottenuto la cittadinanza bosniaca, sposando donne locali. E si sono stabiliti con le loro famiglie in case di profughi serbi. Nel villaggio di Bočinja vivevano circa 160 famiglie. Nel luglio 2001 è intervenuta anche la Nato per restituire le case ai serbi, perché alcuni opponevano resistenza. Dopo l’11 settembre si temeva che questi gruppi, mischiati nella società bosniaca, diventassero potenziali cellule terroristiche.
A quei tempi si parlava molto della nuova guerra in Afghanistan, ma molto meno di questo pericolo in Europa.
Eppure la Bosnia è la longa manus dell’Arabia Saudita che fa affari con l’occidente. E sarebbe alla fame senza il suo sostegno. Occupare l’Afghanistan serviva a Usa e Nato per trovarsi a ridosso della Cina.
A pagina 80 sostiene che tra i fondamentalisti islamici talebani e quelli di Isis (sedicente stato islamico) ci sono dei punti in comune.
Entrambi supportati dai sauditi. Isis anche da Qatar e governo turco di Erdogan. In tempi diversi e su vari scenari di guerra, a che cosa sono serviti? La prima risposta è: destabilizzazione sistematica, che ricorda la vecchia tattica utilizzata dagli Usa negli anni Ottanta in Salvador e Nicaragua. E poi la politica estera dell’ex presidente Bush senior, che nel 1991 volle fortemente la prima guerra in Iraq contro Saddam Hussein: si destabilizza per imporre un potere e controllo militare, economico e politico.
“Rivoluzioni colorate” e “primavere arabe”. Etichette che celano realtà diverse?
Una nuova generazione di giornalisti è corsa a documentarle, esultando con i manifestanti. Un errore. Non bisogna mai sostenere una parte e servono delle prove per capire che cosa sta davvero succedendo e quali saranno le conseguenze. La prima cosa da fare è chiedersi se la piazza è manipolata dall’esterno. Per esempio, io so per certo che nel 2014 dei soggetti venuti da Belgrado hanno pagato i dimostranti di Kiev cento dollari a testa. In aggiunta, si sono infiltrati dei neonazisti. I giornalisti non possono bersi delle bugie solo perché sono favorevoli al cambiamento. Guardassero chi è salito dopo al potere… troppi fotografi, usciti dalle scuole di giornalismo, sanno usare la tecnologia, ma si mostrano sempre più incapaci di trovare la notizia. Non hanno quel sincero spirito critico che dovrebbe alimentare ogni reporter.
Nei festival e negli spazi d’esteri, seppure raccontata male, prevale la guerra. Questa “mitologia del sangue” rischia di oscurare altri temi?
Ci sono tantissime storie trascurate. L’anno scorso la carestia nel Corno d’Africa ha colpito milioni di persone, ma quasi nessuno l’ha fotografata. Un tempo i reporter sarebbero corsi a frotte. Le piccole storie, invece, possono diventare icone di questioni più grandi. Se ritrai un giovane precario, ti stai occupando di un sistema capitalistico che sta negando il futuro alle nuove generazioni. E quando insegno ai ragazzi, che spesso peccano di arroganza, spiego che le grandi storie puoi trovarle dietro l’angolo di casa.
Ha mai provato un disincanto verso la fotografia?
Sono cresciuto con la pellicola e mi sono dovuto adattare al digitale. L’etica, però, viene prima dell’estetica. Quando scatto in digitale, mi limito ancora ai 36 scatti del vecchio rullino. Seguo il soggetto, lo guardo prima a occhio nudo, senza filtri. Per me è cambiato il mezzo, non il metodo. Il giornalismo non morirà: ci saranno sempre storie da raccontare, ma serve più impegno per un’informazione seria, puntuale e continua. Gli stimoli per me sono stati diversi. Mi sono sovraesposto al dolore, ma ho anche imparato molto. Le persone che ho incontrato mi hanno ferito e allo stesso tempo nutrito con l’intensità delle loro vite. Il più delle volte ho fatto tutto da solo. Mi sono auto-inviato per dieci anni nell’ex Iugoslavia perché volevo raccontare la guerra finché non fosse finita. La passione per la Storia mi ha guidato, assieme al desiderio di essere dove essa si compie. In fondo, è con i racconti di mia madre, ex partigiana di Sesto San Giovanni che sono cresciuto. Ero così emozionato dentro al Cremlino, durante il cosiddetto golpe, che sono entrato nella postazione telefonica e l’ho chiamata.
Solo al pensiero, Livio scoppia in una risata che riempie la stanza. La musica è pronta a ripartire, profonda e graffiante come solo il blues sa essere.