“Non si può affidare la custodia dei diritti umani solo a chi ne ha vissuto in prima persona le violazioni”. Per la loro memoria lottano i figli di Sesto San Giovanni, da cui furono deportati centinaia di oppositori politici.
Centinaia di piccoli volti compongono un mosaico in bianco e nero, contornato da una cornice di rovere, a piena parete. Quasi tutti sono giovani o all’inizio dell’età adulta. I deportati riuniti nel quadro lavoravano nell’area industriale di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, una delle più grandi d’Italia. Furono catturati perché da oppositori politici avevano scioperato fra il 1943 e il 1944, durante la seconda guerra mondiale, contro la dittatura fascista di Benito Mussolini e i nazisti tedeschi di Adolf Hitler. Avevano una media di 33 anni. Scendendo le scale della sede locale dell’Associazione nazionale ex deportati (Aned) non puoi non notarli. E fermarti. Da oltre il vetro ti guardano e spesso sorridono, come si è soliti fare nelle foto dei documenti. Gli uomini vestono in modo sobrio e, al tempo stesso, elegante con giacca e camicia. Le donne portano i capelli raccolti, tranne una, che ha le ciocche sciolte, mosse e appuntate di lato, a sfiorare le spalle. Ride con gli occhi vivaci e le guance tonde dell’adolescenza.
La casa dei deportati di Sesto San Giovanni
“Subito dopo la guerra, gli antifascisti vennero a casa nostra per chiedere la foto di mio padre. Volevano rimettere ordine nel caos generato dal conflitto. Eccolo lì, era un operaio e un violinista, sa? Parlava anche il tedesco, perché aveva lavorato in Germania”, dice un uomo sull’ottantina, presidente di quella che comunemente viene chiamata la “Casa dei deportati” di Sesto. Giuseppe Valota ha perso il padre Guido nel campo di concentramento di Mauthausen, in Austria. Come la maggior parte dei caduti originari dell’hinterland nord-milanese, aveva aderito agli scioperi del 1943 e del 1944, durante i quali i nazifascisti repressero gli oppositori politici. Guido lavorava alla Breda, un gruppo di aziende che operava in diversi settori: metalmeccanico, siderurgico, navale e bellico. Scioperare significava fermare la produzione delle armi da fuoco e dei mezzi militari.
Una luce debole illumina il seminterrato dove l’Aned sestese si riunisce dalla fine degli anni Settanta. Prima ci si ritrovava nell’antica villa Zorn, lì vicino. Nel 1946 furono le vedove a convincere i sopravvissuti, segnati e frenati da traumi fisici e psichici, a creare un luogo d’incontro. Insieme, elaboravano il dolore e mantenevano viva la memoria dei loro cari. La stessa madre di Giuseppe, Melania Gervasoni, trasmise probabilmente quel bisogno al figlio sin da bambino.
L’archivio
A partire dal 1995, questo perito elettrotecnico in pensione ha intrapreso un’indagine fuori dall’ordinario. Da solo, volontario e autodidatta, Giuseppe Valota ha iniziato a intervistare tutti i sopravvissuti alla deportazione politica del distretto industriale di Sesto San Giovanni, con l’aggiunta dei famigliari. Nel bilocale di via Giardini 14, dopo mezzo secolo, una cinquantina di interviste agli ex deportati e 99 ai parenti, è così nato un archivio con schede e testimonianze. Finalmente, si è giunti a calcolare un numero più verosimile di oppositori politici classificati come “triangoli rossi” e mandati a morire nei lager: 577 deportati, dei quali 233 morti e 344 sopravvissuti. Fra questi ultimi, tutte le donne, 13, sono riuscite a tornare a casa.
“Nei primi anni Novanta, avendo più tempo libero, sono entrato qui, all’Aned”, racconta Valota, che in questi giorni sta catalogando le schede di altri sei deportati. “Non ero uno storico, ma volevo sapere. Ho cominciato a fare domande ai sopravvissuti, che erano ancora tanti, senza nascondere un certo imbarazzo. Quanti sono stati i deportati della Breda? Quanti quelli della Falck? Quanti sono morti? Quanti sono tornati indietro? Ma nessuno era in grado di dirmelo. Ero stupefatto. Come non si sa? Allora, la ricerca la faccio io, mi son detto”.
Col piglio di un giornalista e la costanza di un accademico, negli ultimi 25 anni Giuseppe Valota ha pubblicato due libri, “Dalla fabbrica ai lager” e “Streikertransport”, tenuto lezioni nelle scuole e accompagnato gli studenti negli ex lager. Intorno a lui, sono nate collaborazioni. Altri iscritti all’Aned, diverse associazioni, insegnanti e volontari hanno dato una mano. Il regista Renato Sarti ha creato un’opera teatrale ispirata dalla sua ricerca, che è stata rappresentata in vari teatri tra cui il Piccolo di Milano. Giuseppe è riuscito a ridare voce alle 577 persone portate via dai treni merce. E non solo: “Per prima, ho intervistato mia madre Melania. I famigliari rimasti a casa rappresentavano un’altra faccia della deportazione: attesa, solitudine, dolore, decenni senza risposte. Nessuno aveva mai pensato a loro, alle mogli e ai figli, come me”.
Gli sfratti con la nuova giunta sestese
È quasi mezzogiorno, ma non abbiamo ancora affrontato il motivo del nostro primo incontro, avvenuto in una conferenza stampa qualche mese fa. Lo scorso giugno il comune ha messo in vendita – senza preavviso – alcuni immobili dove sono in affitto varie associazioni, tra le quali la stessa Aned, Ventimila Leghe, Auser, Avis, Anmil, Maestri del Lavoro, Freecamera, Cai. La prima amministrazione comunale di centrodestra in 72 anni, insediatasi a Sesto San Giovanni nel 2017, ha giustificato questa decisione con necessità finanziarie. Di fatto, il municipio guidato dal sindaco Roberto Di Stefano di Forza Italia e da una maggioranza cui appartengono anche Lega, Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale, Partito Liberale Italiano e alcune liste civiche, rischia di svuotare i palazzi simbolo dell’aggregazione, della difesa dei diritti, della solidarietà, del servizio ai cittadini e dell’antifascismo.
“Dopo il primo sfratto a Ventimila Leghe, che ci ha supportati nell’organizzazione dei viaggi della Memoria, me lo aspettavo”, commenta Giuseppe. “Certamente sopra di noi pende una spada di Damocle. Possiamo, però, restare altri due anni. Se non si dà preavviso, il contratto anche se in scadenza è automaticamente rinnovato. Speriamo. Io, intanto, continuo a lavorare”.
Un “buongiorno” risuona dalle scale. Ci ha raggiunti, come promesso, Raffaella Lorenzi, ex maestra elementare di 84 anni, figlia del deportato Cesare a cui è intitolata una via nella vecchia area delle acciaierie e ferriere Falck. Ha un filo di voce perché ha parlato a una commemorazione, ma ci tiene a dire la sua con tutta la forza che possiede: “Quando ho saputo che questa sede sarebbe stata messa in vendita, mi ha colto una rabbia, un’angoscia, e ho scritto al sindaco: l’Aned è la nostra famiglia. Qui abbiamo ricostruito le storie dei nostri padri. Gli ho chiesto: ‘Perché lo fa? Per interesse o per cancellare la memoria? E, comunque, ci faccia sapere’. Ma non ho mai avuto risposta”.
Nel 2018 l’attuale giunta ha ridotto del 70 per cento i fondi per i viaggi studenteschi negli ex campi di concentramento nazisti. Per il 2019 Ventimila Leghe e Aned sono state costrette a ricoprire l’intera cifra necessaria con un crowdfunding. “Abbiamo rimediato con delle donazioni da parte della società civile”, continua Raffaella, che ogni anno incontra in media 500 studenti: “Racconto loro la storia di mio padre”, spiega.
Una storia di tortura, deportazione e resistenza
Cesare Lorenzi lavorava alla Falck Concordia, come meccanico specializzato. Era arrivato a Sesto San Giovanni da Piombino, socialista e antifascista sin da ragazzo. Nel 1922, anno in cui Mussolini prese il potere e instaurò il regime fascista, era stato torturato e imprigionato ingiustamente nelle carceri di Volterra. A Sesto divenne cassiere del gruppo clandestino Soccorso rosso che portava viveri e denaro ai famigliari di chi era stato incarcerato, condannato al confino o deportato. I fascisti lo arrestarono, come il padre di Giuseppe, Guido Valota, dopo gli scioperi del 1944.
A quel punto Raffaella, che allora aveva solo 9 anni, e sua madre furono costrette a una ricerca disperata e rocambolesca: “Essendo sfollate in Brianza, mia mamma prese la bici, il tram, si recò al commissariato di Sesto, ma non sapevano nulla. Qualcuno le disse che era alla caserma di San Fedele sotto palazzo Marino a Milano, dove i fascisti tenevano i prigionieri. Le comunicarono che poteva portare qualcosa da mangiare e un cambio d’abito. Quindi, ripartimmo insieme per andare a trovarlo. Sono scesa in un sotterraneo, sotto l’attuale municipio milanese. Il salone era buio, ricordo solo una luce fioca. C’erano tre sedie e un militare col fucile sulle spalle. Quando mio padre è entrato, i suoi capelli neri erano diventati bianchissimi. Dopo tanti anni ho scoperto che i suoi carcerieri avevano inscenato una finta fucilazione”.
Raffaella guarda la foto del padre. Come lui ha occhi grandi, lucidi, e lineamenti geometrici, distinti. “Da lì siamo tornate in Brianza. I viaggi erano rischiosi. Bombardamenti, tram che non andavano o deragliavano, sirene. Poi, un giorno mia madre tornò a Milano, ma lui non c’era più. Le dissero di andare all’hotel Regina, accanto alla galleria Vittorio Emanuele, dove avevano sede le SS, le milizie speciali naziste. La cacciarono fuori a calci. Andò al carcere di San Vittore, ma non c’era. Un signore trovò un biglietto con il nostro indirizzo. C’era scritto: ‘Ci portano alla caserma Umberto I di Bergamo’. Salimmo su una bicicletta da donna, io tutta rannicchiata sopra. Ma anche a Bergamo non c’era. Un parente ci disse che un treno merci stava partendo da Brescia. Andammo lì. E attraversammo i binari. Il treno era fermo nella campagna. Le donne portavano borse da cui spuntavano bottiglie e pane. Mia mamma cominciò a bussare a ogni vagone gridando ‘Lorenzi’, finché mio padre si affacciò. Un giovane militare tedesco lo fece scendere”.
“Lui ci rassicurava: ‘Ci portano in Germania a lavorare. Meglio così, San Vittore è più pericoloso. Uccidono dieci italiani per ogni tedesco preso in città’. Io lo baciavo e lo abbracciavo. ‘Presto la guerra sarà finita e vi verrò a prendere’, diceva.
Poi risalì e sorridendo, con un bicchiere in mano gridò: ‘Viva l’Italia’. “Ho rivisto delle scene simili nel film premio Oscar ‘La vita è bella’ di Roberto Benigni”, conclude la donna. Quel quarantunenne dagli ideali granitici morì a Mauthausen il 22 maggio 1945 per tubercolosi e malnutrizione. Il campo era stato liberato da poco, il 5 maggio.
La prima volta della destra nella città Medaglia d’oro della Resistenza
Il municipio sestese, composto da due architetture policromatiche, una pagoda rossa e una torre di dodici piani, si trova in piazza della Resistenza, per la quale Sesto San Giovanni ha ottenuto la Medaglia d’oro al valor militare nella Lotta di liberazione dal nazifascismo. La casa dei deportati è a pochi passi. Per tutta la città si trovano lapidi in ricordo dei caduti, deportati e partigiani. Tuttavia, il neo-sindaco non solo non ha mai fatto visita all’Aned, al suo archivio e ne ha consentito la vendita dei locali, ma ha anche rifiutato di assegnare la cittadinanza onoraria alla senatrice a vita Liliana Segre, che da ragazzina fu deportata in quanto ebrea al campo di Auschwitz-Birkenau.
Di Stefano ha dichiarato che “Segre non è parte della storia di Sesto”, pur vivendo nella vicina Milano ed essendo venuta spesso in città a raccontare la sua storia, anche come iscritta all’Aned che comprende tutti i deportati: ebrei e oppositori politici, individui di qualsiasi ideologia, credo, etnia. Il sindaco, invece, ha fatto parlare di sé per iniziative di segno opposto. Lo scorso gennaio la sua giunta ha concesso una sala comunale per un convegno di Casapound. Non sono riuscite a impedirlo le proteste dell’opposizione e la mobilitazione di piazza promossa dal Comitato antifascista e dall’Associazione nazionale partigiani italiani (Anpi). Quest’ultima è riuscita, però, a bloccare un’altra conferenza di estrema destra che si doveva tenere lo scorso novembre in un albergo.
“Volevamo solo ballare”
“Ho chiamato il direttore dell’hotel e gli ho detto: ma lei sa chi sono loro? È bastato”, dice Lina Calvi, presidente di Anpi Sesto. Avvolta in una sciarpa color porpora, coi capelli bianchi raccolti in uno chignon, ci viene incontro sorridendo nel giardino di villa Zorn. “Li abbiamo persi”, aggiunge indicando una pista da ballo in stile liberty e un ristorante dove, fino al 2017, si riunivano i soci dell’Anpi. “La nuova amministrazione ha deciso di affittarli ai privati. A noi sono rimaste due stanze, ma il circolo era l’anima della nostra associazione. E con i proventi del bar potevamo far fronte alle spese ordinarie”.
Lina parla delle serate danzanti, delle mostre e dei dibattiti. La nostalgia è palpabile: “Finita la guerra la gente voleva ballare. Dopo tutta quella sofferenza, aveva bisogno di divertirsi. Quanto era importante questa pista. Gli anziani e i ragazzi venivano al circolo. Sesto era vivace…”. Uno dei nipoti la chiama al telefono, Lina è da sempre una donna indaffarata che ha dovuto conciliare la vita privata con l’impegno civico, ricoprendo anche il ruolo di assessore all’Educazione nei primi anni ‘90: “Ora hanno persino esternalizzato i servizi di due asili nido, che sono sempre stati un fiore all’occhiello per noi. Sesto è stata una delle prime città italiane a puntare sul sostegno pubblico alle madri lavoratrici”.
Lina abbassa lo sguardo. Dice che si sente molto vicina a Liliana Segre e che non è affatto estranea a Sesto San Giovanni, come sostiene il sindaco. “Ricordo quando veniva nelle nostre scuole per portare la sua testimonianza. I giovani la ascoltavano in un silenzio solenne”.
Si può cancellare la Storia?
In piazza Rondò, crocevia dei pendolari che si infilano in metropolitana per raggiungere Milano, ci aspetta l’ex vicesindaco Felice Cagliani. Il suo lungo percorso politico, con vari incarichi nelle giunte di sinistra, lo porta a un giudizio netto: “La destra, al governo della città da due anni, intende cancellare la storia di Sesto San Giovanni, smantellando ciò che gli altri partiti hanno costruito in 70 anni”. Sesto è stato uno dei centri più importanti della Resistenza. Veniva considerata la Stalingrado d’Italia per la radicata presenza del Partito comunista e di grandi fabbriche come Breda, Falck, Magneti Marelli, Pirelli, Campari. “Ma ha rappresentato anche un modello virtuoso di associazionismo”, sottolinea Cagliani. “Gli sfratti si spiegano così: per tirare una riga sulla storia sestese, stanno eliminando le associazioni della rete solidale, i luoghi che la incarnano”.
Gli studiosi concordano che questo centro di 82mila abitanti, un prolungamento a nordovest del capoluogo milanese, quasi un altro quartiere, ha avuto un ruolo determinante nel Novecento italiano. Probabilmente, la vittoria della destra alle ultime elezioni dipende da più fattori. Roberto Di Stefano ha lanciato la sua candidatura con una propaganda sovranista aggressiva, approfittando della crisi generale dei partiti di sinistra e della crescente disaffezione degli italiani per la politica. A livello locale, il neosindaco si è inserito in un agglomerato urbano completamente cambiato, dopo la chiusura di quasi tutte le produzioni industriali negli anni Novanta e la scomparsa progressiva del tessuto operaio.
Per la sua vicinanza a Milano e un costo inferiore della vita, negli ultimi vent’anni la popolazione di origine straniera è arrivata a rappresentare circa il 17 per cento del totale. “A sinistra abbiamo le nostre responsabilità. Siamo ingessati dai 70 anni precedenti. Fatichiamo a costruire un’opposizione efficace e ad adattarci ai mutamenti sociali. Ciò non significa che non ci abbiamo provato”, spiega Cagliani, che tuttora è in prima linea per dare una nuova identità alla sua città, partendo dalle aree dismesse.
Ecologia, servizi e cultura per costruire una nuova identità
Come rappresentante di Articolo Uno, ha fatto parte della delegazione che si è recata lo scorso ottobre al ministero della Sanità per difendere il progetto della “Città della salute e della ricerca”. In una zona dell’ex Falck dovrebbero essere trasferiti l’Istituto Besta e l’Istituto Tumori, con la creazione di un polo pubblico d’eccellenza che farebbe rinascere quest’area abbandonata dell’hinterland milanese. L’idea, firmata dall’architetto e senatore a vita Renzo Piano, si basa sul “non consumo di suolo”. L’ospedale, pur garantendo 650 posti letto, dovrebbe avere “dimensioni più umane”, non superare i tre piani, e inserirsi in un’area verde di 55mila metri quadri e 10mila alberi. Pare, invece, che adesso l’amministrazione voglia favorire l’ingresso di strutture private.
Da un cavalcavia a nord di Sesto, si riesce a vedere solo una distesa fangosa, seppur già bonificata: “Doveva essere pronta nel 2020. Invece, è tutto fermo, a causa anche di problemi giudiziari in Regione, risalenti all’epoca del governatore Roberto Formigoni e di bilancio dell’impresa di costruzioni”, dice Felice Cagliani.
“Abbiamo lottato per averlo. Sarebbe un simbolo di riqualificazione. Andrebbe a ‘compensare’ i danni causati dalla storia industriale. Fino al 1996, anno dell’ultima colata Falck, sui balconi di Sesto San Giovanni c’erano di norma due centimetri di polvere nera. A quei tempi, però, non esisteva una coscienza ambientale diffusa”. A Sesto San Giovanni si gioca una partita emblematica per l’intera nazione. La sua nuova identità si potrebbe costruire a partire sia dal suo passato che da una visione a lungo termine di rinnovamento. Potrebbe essere il primo importante esperimento italiano di sviluppo policentrico, alle porte di una grande città.
Il villaggio Falck, con le sue villette in stile Liberty, cuore della Resistenza locale, dovrebbe continuare a essere una meta storica, ma al momento assomiglia di più a un’area residenziale di periferia. L’ex circolo operaio, davanti a cui i fascisti fucilarono i due operai Luciano Migliorini e Pantaleo De Candia, mettendone in mostra i cadaveri in segno di ammonimento, è diventato un hotel di una catena alberghiera. Intorno, scorre lo stradone intitolato proprio a Migliorini, con il suo muro di bei graffiti consumati dalle intemperie e lo stesso paesaggio desolato ripreso da Pier Paolo Pasolini nel film “Edipo Re”. Da ambo i lati, oltre le recinzioni e i cancelli blindati, giacciono i cadaveri di due torri e gli scheletri ferrosi di due ex capannoni. È la parrocchia di San Giorgio a custodire con cura un monumento ai deportati, dove è incorniciato il volto ormai famigliare di Cesare Lorenzi, che abitava lì accanto.
Il bel parco archeologico industriale, che ha la sua espressione più evocativa nel Carroponte ristrutturato della Breda, oggi utilizzato come spazio per concerti all’aperto, potrebbe essere esteso. Lo visitiamo con Giuseppe Valota, che ci mostra un’ex locomotiva e un muro su cui sono stati incisi i risultati della sua ricerca sui deportati. Assieme a lui e a Raffaella Lorenzi stiamo andando a vedere come sono diventati i luoghi dove lavoravano i loro padri. Uno, in particolare, si estende per 640 ettari ed è stato creato su aree dismesse della Breda sottratte alla cementificazione. È il polmone verde del Parco Nord, voluto alla fine degli anni Sessanta dalle amministrazioni di Sesto, Milano e altri comuni dell’hinterland.
Il Monumento al deportato
E non è un caso, che sulla collina artificiale, formata dagli scarti industriali, l’architetto ex deportato Lodovico Barbiano di Belgiojoso, col figlio Alberico, abbia pensato di collocare il Monumento al deportato.
La strada in salita è cosparsa di ciottoli, che ricordano quelli dei campi di lavoro. I gradini evocano la cosiddetta “scala della morte” di Mauthausen, sulla quale i prigionieri erano costretti a portare i massi di granito che si producevano nella cava del lager. Le cadute fatali erano continue. Spesso i kapò spingevano gli schiavi dai 186 gradini, uccidendoli, quando nel campo si doveva far posto a nuovi detenuti. La stele in cima, da cui parte un semicerchio di lapidi proiettato verso l’orizzonte, rappresenta una persona stilizzata con i massi sia nella testa che nei piedi, essenza della privazione assoluta della libertà. Su quegli stessi massi, ci ricorda Valota, “è stato compiuto un attentato. E nella commemorazione organizzata dall’Aned e dall’Anpi, nell’ottobre 2017, il sindaco non è venuto e non ha mandato un gonfalone”.
Quale futuro di una periferia da 3 milioni di persone
Tornando in centro, ci si chiede se Sesto San Giovanni, malgrado la sua considerevole storia, rischi di spegnersi come quasi tutti i comuni dell’hinterland milanese. Chi è cresciuto in questi luoghi, spesso li definisce “dormitori” per pendolari. Nella città metropolitana, si teme che la fioritura di Milano, capitale economica d’Italia, che si sta dotando di nuovi quartieri e servizi, si accompagni all’oblio progressivo della cerchia di paesi dove vivono più di tre milioni di persone. L’hinterland potrebbe diventare, e in parte è già diventato, la nuova grande periferia del capoluogo lombardo. Si abbassano per sempre le saracinesche dei negozi di vicinato, soppiantati dai centri commerciali. Scarseggiano i luoghi di aggregazione per tutte le fasce di età. Scompaiono gli spazi verdi dove far giocare i bambini.
A Sesto è stato chiuso il giardino didattico della settecentesca Villa Mylius. Per decisione del comune, che ne è proprietario, la serra, le aiuole, il padiglione, che accoglievano gli alunni delle scuole, giacciono in stato di abbandono. All’interno della dimora dell’imprenditore della seta Mylius WonMiller si trova, dal 1973, un’altra eccellenza italiana, l’Istituto per la storia contemporanea (Isec). E anche qui non mancano difficoltà. L’amministrazione ha congelato la convenzione che prevedeva dei fondi comunali per la fondazione. Il responsabile Alessandro Pollio Salimbeni spiega: “Noi non abbiamo problemi di proprietà, non siamo affittuari. Tuttavia, con quei contributi potremmo effettuare più ricerche storiche e organizzare altre attività. Del valore del nostro archivio e del nostro lavoro, beneficia sia Sesto che l’intera città metropolitana, proprio nell’ottica di uno sviluppo policentrico. La storia dovrebbe essere prioritaria per la collettività”.
Il ruolo della politica
Isec custodisce parte dell’archivio di Aned: pubblicazioni, foto, il volantino color seppia del comitato segreto di agitazione che chiedeva ai lavoratori di scioperare nel 1944. Su circa 40mila deportati italiani, 23.400 erano oppositori politici, circa 10mila furono fermati nei campi italiani e 8mila ebrei mandati nei lager oltre il Brennero, in Austria e Germania. Ce lo ricorda a Milano, nella sede nazionale dell’Aned, chiamata anche “Casa della Memoria”, il presidente Dario Venegoni. Il giornalista, scrittore, figlio dei sopravvissuti Carlo Venegoni e Ada Buffulini, spiega: “Noi rappresentiamo tutti i deportati. Vogliamo unire, non dividere. Quella di Sesto non è una storia locale o minore, ma rammenta che moltissime persone sono state rinchiuse nei campi di concentramento per il loro impegno politico contro il fascismo. E un’iniziativa politica è necessaria affinché a Sesto rimanga un presidio dell’Aned”.
Il dialogo tra generazioni
Quando torniamo a Sesto, è sera. Giuseppe Valota è ancora seduto davanti al computer. Gran parte delle sue registrazioni su audiocassette è stata trascritta e digitalizzata, ma nell’archivio resta ancora molto lavoro da sbrigare. Nuove ricerche, altre storie scoperte di recente da catalogare, documenti da riordinare. In quel momento ci raggiunge uno dei giovani coordinatori delle “Sardine” di Sesto San Giovanni e Cinisello Balsamo, due comuni che insieme raggruppano 160mila abitanti. “Sono felice di conoscerti Giuseppe, perché l’Aned rappresenta la storia politica che la destra sovranista vuole cancellare. Cardini della nostra rete sono l’antifascismo e l’antirazzismo”, dice Marcello Iarrera, studente di Scienze politiche all’Università Statale di Milano.
“Sono cresciuto in un quartiere di Sesto con moltissimi immigrati. Sono i miei amici, italiani come me, non ha senso discriminarli. In tutta la mia vita non ho mai conosciuto la politica con la P maiuscola. Noi giovani siamo stanchi che si esprima in scontri verbali da salotto televisivo. Non deve vincere chi urla di più o diffonde fake news sui social. La politica non è una branca del marketing”.
Valota risponde ricordando coloro che hanno sacrificato la loro vita per la politica: “Sesto è sempre stata largamente antifascista. I primi grandi scioperi, risalgono al cosiddetto biennio rosso fra il 1919 e il 1921. Negli anni 1931, 1935 e 1939 tre sentenze del Tribunale speciale di difesa dello stato fascista condannarono 101 lavoratori di Sesto San Giovanni. Altri sei furono mandati al confino. La classe operaia era contraria al fascismo perché non c’era libertà. Si soffriva economicamente. Tutta la vita sociale e culturale era programmata, e la scuola diretta da Roma senza autonomie. Nei libri c’era già l’idea del cittadino soldato. Nelle fabbriche si stava male, si mangiava e si parlava poco”.
Gli scioperi che condussero alla deportazione
Con la guerra, la situazione precipitò. L’alleanza fra Mussolini e il dittatore nazista Adolf Hitler fece precipitare l’Italia in un conflitto che non era in grado di combattere, con atroci sofferenze per la popolazione. Continua Valota: “Le ore di lavoro aumentarono e le fabbriche furono militarizzate. Oltre ai capi reparto, a sovraintendere la disciplina arrivarono ex militari, generali, colonnelli. C’erano delle tessere annonarie, ma le razioni di riso e pane diminuirono col proseguire del conflitto. Il malcontento nelle fabbriche crebbe. Cominciò a mancare il riscaldamento nelle case. Faceva freddo a scuola e al lavoro. La gente dimagriva a vista d’occhio. Arrivarono i bombardamenti a terrorizzarci. Alla fine centinaia di migliaia di lavoratori del centro-nord decisero di fermarsi.
Fu uno sciopero politico nel senso più alto del termine. Oltre a sollevare istanze economiche, nel volantino clandestino si leggeva: ‘né un uomo, né una macchina’. I tedeschi stavano pensando di spostare la produzione e i macchinari in Germania perché lì nessuno scioperava. Di macchine ne sono andate poche, ma di uomini molti”.
La democrazia richiede partecipazione
Come sosteneva la filosofa ungherese Agnès Heller, sopravvissuta prima alla Shoah, lo sterminio degli ebrei nel Ventesimo secolo, e poi alla persecuzione stalinista, per mantenere vivi i principi democratici serve una “manutenzione attiva”. Nulla va dato per scontato. Il fascismo può tornare, anche se in forme diverse. La democrazia richiede partecipazione e un impegno collettivo costante. Le sue fondamenta vanno ricostruite ogni giorno. Ne è espressione la cura che Giuseppe ha del suo archivio e della Casa dei deportati. Tuttavia, non si può affidare la custodia dei diritti umani solo a chi ne ha vissuto in prima persona le violazioni. Essi devono sopravvivere, come patrimonio acquisito, nelle nuove generazioni affinché le voci di coloro che furono mandati a morire non siano ridotte al silenzio per la seconda volta. Di tutti i nomi ritrovati e anche di “tutti coloro di cui non è rimasta traccia”, come recita la frase fatta incidere sull’ultima lapide del Monumento al Deportato da Giuseppe Valota.