Vivono e lavorano in condizioni estreme, non sono consapevoli dei loro diritti, non hanno alcuna nozione sanitaria, né una cultura del risparmio. Spesso sprecano i pochi soldi guadagnati in alcol e fumo. Sono come schiavi moderni. Tra loro migliaia di bambini malnutriti. Gli italiani sono in prima fila per cercare di alleviare le sofferenze di una popolazione che…
È l’alba quando con un’auto-taxi sgangherata partiamo per Dhading, distretto rurale del Nepal noto per le cave e i cosiddetti spaccapietre che ci lavorano, bambini, donne, uomini di ogni età, anche anziani. Attraversata Kathmandu, che a quell’ora si è già popolata di mercanti e pellegrini indù che portano le offerte ai templi, arriviamo finalmente ai confini della valle, con al centro la capitale, e ai margini del Nepal più remoto.
Qui, solo poco più di un anno fa c’era un check-point, che segnava la fine del territorio controllato dall’esercito governativo e l’inizio delle impervie zone popolate dai guerriglieri maoisti. Dopo una guerra durata dieci anni e almeno 13.000 morti, un’alleanza di sette partiti ha firmato la pace coi ribelli nel novembre 2006, intraprendendo un negoziato travagliato verso la democrazia. Il re assoluto Gyanendra è stato privato di tutti i poteri e a dicembre si è deciso di proclamare la repubblica dopo il voto, previsto per aprile e rimandato già due volte, per un’assemblea costituente.
La nebbia diventa sempre più fitta, mentre imbocchiamo i primi tornanti della strada per Pokhara, l’unica a collegare Kathmandu con il nord. Da ambo i lati, le montagne sono ricoperte da piantagioni di mais verde intenso. Alcuni bambini puliscono con scope più alte di loro alcuni tratti della “highway”, come la chiamano qui, prima che siano asfaltati. Altri cercano di venderci bottiglie d’acqua e dolci. Diversi operai spaccano pietre con macchine rudimentali, un’anticipazione del lavoro a mani nude che vedremo fra alcune ore.
Passiamo le ultime case di mattoni e lamiera. La valle è sempre più lontana. Il traffico, invece, su queste colline dell’Himalaya aumenta di chilometro in chilometro. Camion con decorazioni religiose sul cruscotto e autobus sovraffollati fanno a gara per superarsi, noncuranti degli strapiombi, in un sottofondo di clacson senza pause. Il gas di scarico fa bruciare la gola.
Dopo due ore la nebbia scompare e appaiono ai piedi delle alture i primi mucchietti di sassi. Siamo a Mahadevbensi, un agglomerato di case a ridosso della strada, da cui si vede la gola del fiume Agrakola, puntellato lungo le sue sponde da piccole macchie blu, ovvero le tende dove abitano almeno 5.000 spaccapietre di 30 distretti, su 75, del Nepal.
“I locali dicono che ci vivono 500 famiglie, ma in certi periodi potrebbero essere molte di più, contando i lavoratori stagionali che vanno e vengono” spiega Barbara Monachesi, presidente di Apeiron, un’associazione italiana che sta conducendo un’indagine nella zona. “In vista di un progetto umanitario per gli spaccapietre, stiamo facendo un nuovo censimento. Gran parte dei lavoratori vive qui tutto l’anno, ma ci sono anche persone che durante la stagione dei monsoni, quando il livello del fiume è troppo alto per estrarre le pietre, tornano al villaggio d’origine. Le più fortunate vanno a lavorare il loro pezzo di terra, mentre le altre prestano le braccia a qualche proprietario terriero”.
Circa dieci chilometri di rive dell’Agrakola sono stati popolati a partire dai primi anni Novanta, quando forti alluvioni hanno trascinato molte pietre. Scendendo a piedi un percorso fangoso, verso la riva, si vedono due donne che raccolgono pietre dal letto del fiume. L’acqua arriva loro alle ginocchia e un bambino si diverte a bagnarle. Dopo aver riempito i coni di bambù, li caricano sulle spalle e vanno a svuotarli davanti alle tende. Qui, con un martello, spaccano i massi in pezzi sempre più piccoli da vendere ai tekadar, compratori di pietre che li caricano sui camion. “I sassi sono venduti a barili”, dice Monachesi. “Di solito per un barile si guadagnano 10 rupie, circa 12 centesimi di euro. Una miseria che non consente di fare una vita dignitosa. Per stare sulle rive del fiume gli spaccapietre devono pagare ogni mese cento rupie al cosiddetto proprietario terriero. In realtà non siamo ancora riusciti a capire se i proprietari sono veramente tali. Tutti dicono di avere i documenti che lo provano, ma nessuno ce li ha mai mostrati. I proprietari terrieri e i tekadar sono in combutta. Se lo spaccapietre si rifiuta di pagare il proprietario della terra, nessun tekadar comprerà i suoi sassi”.
Un camion parte. Direzione: Kathmandu. È lì che vengono portati i sassi per costruire case e palazzi di una città che sta vivendo un boom demografico ed edilizio assai problematico. I migranti, poverissimi, arrivano da ogni parte del Paese in cerca di un futuro migliore. Le baraccopoli si allargano a macchia d’olio e per far spazio alle nuove costruzioni si demoliscono spesso le più antiche o si snatura il volto della valle, ai piedi della catena himalayana. Kanchhi, una piccolissima donna avvolta in un sari rosa, con una tanica d’acqua sulla spalla raccolta da una fonte pubblica, racconta: “Tutti i quaranta membri della mia famiglia fanno gli spaccapietre. Non so quanti anni ho – ride – forse 45. Non ho mai studiato e vivo in una di queste tende. Vorrei andare via, ma non so dove. Qui l’acqua potabile scarseggia e non esistono servizi igienici e fognature. Sto aspettando che qualcuno venga ad aiutarci”.
Lungo i sentieri che portano al fiume, che è a un’ora di cammino, gli spaccapietre passano con ceste di alimenti comprati al villaggio più vicino di Mahadevbensi. La maggior parte dei beni di prima necessità, però, li acquistano a credito dai proprietari terrieri. Spesso finiscono nella morsa di debiti e interessi altissimi, perché i soldi guadagnati spaccando le pietre non bastano per alimentarsi tutto l’anno. Alla fonte d’acqua una bambina e una ragazza lavano i panni: “Mi chiamo Sunita, ho 17 anni, e anch’io rompo le pietre. Non so cos’altro potrei fare. Ho ricevuto un’educazione lacunosa e so solo scrivere qualcosa”.
Buddna dice di avere 45 anni, anche se sembra una donna molto anziana: “Spacco le pietre da quando avevo 8 anni e abitavo nel distretto di Makamuanpur. Questo lavoro è rischioso. Possiamo cadere, ferirci le mani, essere colpiti dalle schegge negli occhi”. Nell’area degli spaccapietre non esiste alcun centro di assistenza sanitaria. Chi ha problemi di salute deve recarsi fino a Kathmandu. “Mio marito è camionista”, continua Buddna “e i miei 4 figli vanno a scuola, ma nel tempo libero spaccano anche loro le pietre”.
In Nepal si contano 2 milioni e 600.000 bambini lavoratori, che per l’estrema povertà sono costretti ad aiutare i genitori. Quasi tutti i piccoli spaccapietre vanno in una scuola elementare, ma nelle ore libere devono lavorare. “I miei figli, di 2, 5 e 7 anni mi aiutano a raccogliere le pietre, ma non le rompono”, dice Sanu, un ragazzo magrissimo di 27 anni, con sul volto i segni profondi della fatica. Nella sua tenda ogni cosa è in ordine, coperte, stoviglie, vestiti, e i bambini giocano con la madre su un tappeto di paglia. “Siamo venuti a Dhading perché siamo rimasti senza terra e senza casa dopo un’alluvione. Qui la vita è dura, ma almeno abbiamo un lavoro”.
“Quasi tutti gli spaccapietre non sono consapevoli dei loro diritti e si accontentano di condizioni di vita estreme”, spiega la presidente di Apeiron. “Non hanno alcuna nozione sanitaria e alcuna cultura del risparmio. Sprecano spesso i pochi soldi in alcol e sigarette, e si trasmettono con facilità le malattie”. Muna, 8 anni, viene a giocare coi bambini di Sanu. Ha la pelle olivastra, scurita dalle tante ore trascorse a raccogliere e spaccare le pietre sotto il sole, ma i capelli incredibilmente chiari. “Può essere un segno della malnutrizione, che qui è diffusissima”, aggiunge Monachesi.
Muna vorrebbe andare a scuola. Ha sentito dire che è divertente, ma suo padre non glielo permette: “Tanto non proseguirebbe oltre la scuola elementare, perché dunque farla iniziare?”, dice l’uomo, aggrappato alle certezze tipiche di chi vive nella miseria.
“Anche la guerra ha spinto molte persone a trasferirsi lungo il fiume Agrakola”, spiega Sanu Giri, operatore umanitario che collabora con Apeiron. “I maoisti hanno preso loro le terre o hanno reso troppo pericolosi i distretti in cui vivevano. Quest’area, al contrario, è così povera che i ribelli non avevano nulla da estorcere o confiscare”. E adesso che il conflitto è finito, ma la situazione resta incerta, molti hanno deciso di rimanere. Sotto una delle tende più grandi, una piccola amaca dondola con dentro un bambino di appena cinque mesi. Suo fratello, dodicenne, sorride mostrandoci la maglietta con stampata Britney Spears e quella di Avril Lavigne, altro idolo degli adolescenti occidentali, che ha letteralmente invaso il mercato nepalese. “Siamo venuti a lavorare come spaccapietre perché la terra che avevamo nel nostro villaggio era troppo piccola per sfamarci”, dice la madre, mentre un gallo cammina intorno ai suoi piedi. Tornati sulla “highway”, veniamo accolti in una casa di legno per ristorarci con acqua bollita e pane in cassetta. Come in una sorta di autogrill, tre tavoli di legno e tre panche sono lasciati a disposizione dei visitatori.
Alla domanda se qualche organizzazione internazionale, delle tante presenti in Nepal, ha mai pensato di aiutare gli spaccapietre, risponde Uttam Poudel, un ragazzo di 24 anni laureato in Sociologia: “Dal 1999 al 2005 l’International Labour Organization (ILO), per la quale ho lavorato, sviluppò un progetto contro il lavoro minorile. Poi ha deciso di andarsene, ma non sappiamo perché”. A Dhading c’è ancora molto da fare. Pare che dopo l’intervento dell’ILO gran parte dei bambini abbia ripreso a frequentare la scuola, ma non ha smesso di lavorare nelle ore libere. La lotta contro il lavoro minorile è prima di tutto una lotta contro la povertà: “Io continuo a occuparmi della gente della mia comunità in modo volontario”, continua Poudel. “E per mantenermi faccio il contadino”. Sher bahadur Gurung, un giovane di 32 anni, ha vissuto la medesima esperienza: “ Dopo la partenza dell’ILO, ho continuato a fare il volontario per Youcasp, un’organizzazione locale che adesso collabora con Apeiron. Sono di Dhading e voglio aiutare i miei compaesani”. I mezzi di cui dispongono i volontari locali, tuttavia, sono troppo pochi: “Ma non ci arrenderemo”, dice Sanu Giri con determinazione. “Io e gli altri volontari resteremo a Dhading perché abbiamo un sogno: realizzare un altro progetto che possa aiutare i bambini e i loro famigliari”. È quasi sera e dalla casa di legno, trasformata in luogo di ristoro, la veduta del fiume toglie il fiato. Sui pendii i contadini si muovono fra la vegetazione, mentre lungo la riva piccoli gruppi di adulti e ragazzini spaccano le ultime pietre prima che venga buio.