Pechino considera da sempre il Tibet una sua regione e vanta di aver modernizzato una società di stampo feudale e teocratico. Nonostante la complessità del tema, sottolineata a suo tempo anche dal grande antropologo e amante del Tibet Fosco Maraini, si può dire che la “sinizzazione” ha comportato gravi violazioni dei diritti umani. La libertà di culto è stata cancellata, mentre centinaia di monasteri e opere d’arte sono andati distrutti. Continuano le urbanizzazioni forzate di una popolazione prevalentemente nomade.
Tenzin ha dieci anni, occhi vispi che sorridono e le gote arrossate dal sole himalayano. A gesti e con qualche parola di inglese si offre di farci da guida a Boudha, il quartiere tibetano di Kathmandu. A quell’ora le scuole sono ancora chiuse e i genitori indaffarati in una delle tante botteghe della zona. Anche lui è profugo, fuggito dal Tibet pochi anni addietro e ora residente in questa cittadella sul versante orientale della capitale nepalese. Un mondo a parte che si svela inaspettatamente attraverso il suo stupa immenso, il più grande del Nepal e uno dei più preziosi al mondo.
Qui in epoche lontane i mercanti tibetani si fermavano a ringraziare Buddha per aver attraversato sani e salvi l’Himalaya, invocando protezione per il ritorno. Ma dopo la repressione cinese di fine anni Cinquanta, questo viaggio impossibile è stato intrapreso dagli esuli del Tetto del Mondo, tra cui molti bambini dell’età di Tenzin o persino più piccoli. La luce calda del primo mattino fa brillare i filari di bandierine tesi da una casa all’altra, mentre i pellegrini muovono le ruote di preghiera, mormorando i mantra. L’energia è palpabile e Tenzin sembra contento del nostro stupore di fronte a un universo così vivace e spirituale. Il simbolismo ci circonda coi suoi dipinti, le sue incisioni e le sue offerte alla divinità. Una visita al tempio è indispensabile per iniziare a capire le radici culturali da cui provengono tanti tibetani della diaspora, solo in Nepal almeno 25mila.
Salutato Tenzin, che ha dovuto lasciarci per entrare in classe, ci dirigiamo verso la Tashi Boarding School, una grande casa di accoglienza per minori tibetani, in gran parte orfani o emigrati dagli altopiani senza genitori. Molti provengono dal monte Kalash, sacro ai buddhisti, o da altre regioni himalayane al confine. Vitto, alloggio e istruzione sono garantiti a 145 ragazzini, in età compresa fra i quattro e i dodici anni. Tashi Tsering Lama, fondatore del centro, con il supporto dell’italiana Butterfly onlus, ci prepara a quanto sentiremo:
«Le storie sono così dure che alcuni bambini non riescono a raccontarle. Altri hanno cercato di rimuoverle».
Sulla terrazza della scuola, da cui si domina un’estesa valle, beviamo in sua compagnia del tè salato mescolato al ghi, burro chiarificato: «Sono nato cinque giorni dopo l’invasione cinese (10 marzo 1959, NDR)», racconta il monaco. «Appartenevo a una famiglia nobile e per questo mio nonno fu ucciso. Sentendosi in pericolo, i miei genitori presero in braccio me e mio fratello correndo per tutta la notte. La loro fuga durò venti giorni. Camminarono senza mai fermarsi per poi trovare rifugio in Nepal». Tashi ha studiato per venticinque anni nei monasteri dell’India, diventando un pittore molto noto. Dal ’94 vive tra Kathmandu e Votigno, vicino a Reggio Emilia, dove sorge una Casa che vuole preservare la cultura del Tibet, ed è presidente della comunità tibetana in Italia.
Alcuni studenti ci raggiungono durante le pause dalle lezioni. Timidamente entra nella stanza un gruppo di bambini. La più preparata a raccontarsi, Sonam Tsamchoe, dieci anni, ne aveva sette quando si è messa in cammino con altri undici ragazzini, sua nonna e un accompagnatore incaricato di portarli alla frontiera. Di solito le “guide” sono due: la prima conduce i profughi dai loro villaggi al confine nepalese, dove li riceve il secondo sherpa per farli arrivare fino a Kathmandu, presso la comunità tibetana. Non tutti i fuggitivi, però, giungono a destinazione, come spiega Sonam:
«Abbiamo camminato per undici giorni prima di salire su un’auto. È stato molto difficile avanzare a migliaia di metri d’altitudine, nella neve e nonostante il freddo. Mia nonna non ce l’ha fatta perché le si sono congelate le gambe. In Tibet sono rimasti solo mia madre e due fratelli, poveri e malati. Poiché non riuscivano a mantenermi mi hanno fatta fuggire».
Come in quasi tutta l’Asia buddhista spesso i figli vengono affidati a pagode e monasteri per farli sopravvivere e studiare. I motivi economici, però, non sono i soli a spingere le famiglie tibetane ad abbandonare i loro bambini. Sanno che in Nepal e in India potranno crescere come tibetani, ovvero imparare la loro lingua, praticare il buddhismo ed essere liberi di esprimersi. Tutti diritti negati dall’amministrazione cinese. Secondo Claudio Cardelli, presidente dell’Associazione Italia-Tibet, «il viaggio è rischioso, ma la disperazione è più forte. I tibetani non vogliono scomparire come popolo, perciò sono disposti a far partire anche i bambini. Dopo l’occupazione di Pechino, l’attaccamento alla loro cultura si è esacerbato». Le storie degli allievi della Boarding School sono tutte tragicamente simili. Accanto a Tashi Lama è seduto un monaco dall’aspetto possente ma dallo sguardo sofferto: «A partire dal 2003 sono andato a prendere molti ragazzini al confine col Tibet», spiega emozionato Geshe Nawang Thardoe, illustre insegnante di buddhismo a Sowayambu. «Alcune volte i profughi erano così provati dal viaggio che mi sono chiesto se ne era valsa la pena per loro affrontare una tale odissea». A questo punto le lacrime ricoprono il suo viso, impedendogli di proseguire nel racconto.
L’esodo tibetano comincia dopo la repressione cinese del 1959, quando il quattordicesimo Dalai Lama, capo politico e spirituale del Tibet, fugge seguito da decine di migliaia di persone. La maggior parte dei profughi trova rifugio in India, dove nel Nord, a Dharamsala, si insedia il governo tibetano in esilio. I continui arrivi, che hanno portato oggi a una popolazione di oltre 100mila esuli sparsi nella federazione indiana, spingono la massima autorità tibetana a trovare un riparo per i più giovani rimasti senza a genitori o separati dalle loro famiglie durante la diaspora. È così che parte l’esperienza dei Tibetan children’s villages gestiti da Tsering Dolma Takla, la sorella più anziana del Dalai Lama: il 17 maggio 1960 arrivano nella prima nursery 51 minori malati e malnutriti che vivevano nel campo profughi di Jammu. Con l’aumento delle donazioni, provenienti soprattutto da benefattori occidentali, quelle che erano solo delle infermerie di primo soccorso si trasformano in veri e propri villaggi, con abitazioni e scuole. Al momento sono quasi 17mila i bambini ospitati in queste comunità.
India e Nepal non hanno firmato la convenzione di Ginevra sui rifugiati, ma gestiscono il flusso di stranieri in base a leggi locali. «New Delhi garantisce tutti i diritti tranne quello di ottenere la nazionalità indiana e di votare», spiega Tashi Lama, che probabilmente si è ispirato all’opera di accoglienza dei Tibetan children’s villages. «In Nepal, invece, ci sono più limitazioni. Tutti i profughi tibetani, compresi i miei bambini, non avranno mai la cittadinanza nepalese né la possibilità di acquistare della terra, una casa o di essere assunti in uffici pubblici». Kathmandu considera i profughi degli ospiti temporanei, destinati a essere trasferiti in un Paese terzo, cioè l’India. Da poco uscita da una guerra civile decennale, la giovane e piccola repubblica nepalese rimane per molti tibetani un luogo di passaggio, il primo approdo in una terra straniera.
La responsabile dell’onlus Apeiron, Barbara Monachesi, che vive qui da cinque anni, dichiara: «Il Nepal è un Paese minato dall’instabilità e dalla povertà. Il processo di democratizzazione è in bilico. Le ferite del conflitto fra guerriglieri maoisti e governo restano aperte. I nepalesi sono molto segnati da questa precarietà e a volte vedono i tibetani con distacco. Li considerano dei privilegiati perché grazie agli aiuti dell’Occidente hanno più mezzi rispetto agli autoctoni».
Tuttavia Paolo Pobbiati, ex presidente di Amnesty Italia, precisa che negli ultimi due anni gli arrivi di profughi sono diminuiti:
«La Cina ha fatto pressione sull’attuale governo nepalese e sulle forze politiche maoiste affinché smettessero di accettare i tibetani. Il giro di vite di Pechino è cominciato dopo le rivolte separatiste del marzo 2008, cui sono seguiti controlli polizieschi su monaci e civili, ondate di arresti e condanne a morte».
«È vero», conferma Tashi Lama, mentre a Kathmandu scende la sera. «Quest’anno hanno raggiunto il nostro orfanotrofio solo dodici bambini. I soldati cinesi presidiano tutto il confine con il Nepal». La conferma ufficiale di questa situazione è stata data anche da Tempa Tsering, portavoce del Dalai Lama a New Delhi, secondo il quale fino al 2008 lasciavano il Tibet ogni anno dalle 2500 alle 3mila persone, mentre nel 2009 ne sono partite appena 600. Sarebbe in corso una campagna di addestramento della polizia di confine nepalese che riceve dal governo cinese equipaggiamenti e dotazioni militari.
Pechino considera da sempre il Tibet una sua regione e vanta di aver modernizzato una società di stampo feudale e teocratico. Nonostante la complessità del tema, sottolineata a suo tempo anche dal grande antropologo e amante del Tibet Fosco Maraini, si può dire che la “sinizzazione” ha comportato gravi violazioni dei diritti umani. La libertà di culto è stata cancellata, mentre centinaia di monasteri e opere d’arte sono andati distrutti. Continuano, inoltre, le urbanizzazioni forzate di una popolazione prevalentemente nomade, per permettere all’imponente macchina industriale cinese di sfruttare meglio il territorio ricco di risorse idriche, minerali e foreste. Per molti difensori della causa tibetana Pechino starebbe attuando un colonialismo di stampo ottocentesco e i tibetani sarebbero nelle stesse condizioni degli indiani d’America al tempo del Far West.
Il sole sta calando dietro le montagne e la comunità tibetana esce per percorrere in senso orario il circuito rituale intorno allo stupa. Tashi, gli insegnanti e gli studenti si ritirano per consumare la cena. Una musica di cimbali e mantra dalla voce profonda si diffonde nel quartiere. Con nostra sorpresa Tenzin ci aspetta alle porte di Boudha per salutare i suoi nuovi amici stranieri. Poi a un certo punto è distratto da un altro ragazzino che si sta arrampicando sullo stupa, mentre le bandiere colorate sono mosse dalla leggera brezza lasciata dall’ultimo acquazzone monsonico.
Grazie Francesca per il tuo esauriente e suggestivo reportage. Complimenti anche al bravo fotografo Lorenzo. Diffondo. Tashi Delek Claudio
Grazie di cuore Claudio, da parte mia e di Lorenzo.