È il primo a denunciare che in Iraq non esistono le armi di distruzione di massa, pochi mesi dopo l’inizio della seconda Guerra del Golfo.
Paga un prezzo elevato per questo, tanto che Hollywood dedica alla sua incredibile storia il film “Fair Game” con il divo più intenso del momento, Sean Penn. A 61 anni e dopo oltre venti di carriera diplomatica, oggi Joseph Charles Wilson IV racconta, in questa intervista esclusiva per east, cosa significhi essere americano, ma soprattutto ci parla dell’Iraq, violentato da un conflitto ancora in corso.
Nel 1990 è l’ultimo diplomatico a incontrare Saddam Hussein, prima di “Desert Storm”, l’operazione militare statunitense in risposta all’invasione del Kuwait ordinata dal dittatore iracheno. Come vice capo-missione a Baghdad, l’allora quarantenne Wilson riesce a dar rifugio in ambasciata a un centinaio di americani e a far fuggire dall’Iraq migliaia di persone. Poi, dopo una lunga esperienza tra l’Africa e l’Europa, anche come assistente del presidente Bill Clinton, la questione irachena ripiomba nella sua vita, sconvolgendola.
Nel febbraio 2002, mentre l’amministrazione Bush-junior prepara la guerra, la CIA gli chiede di andare in Niger per verificare se questo Paese abbia venduto uranio all’Iraq. Nello stesso tempo, sua moglie, la bellissima e biondissima Valerie Plame, guida una task force dell’intelligence sugli armamenti nucleari. Solo Wilson conosce la vera professione di agente segreto della consorte, che ha sempre ribadito di non aver proposto lei di inviare il marito in Africa. Nessun nepotismo, quindi. Wilson parte, incontra decine di persone, indaga, ma non trova niente che provi i sospetti del vice presidente Dick Cheney. Stila la sua relazione, ma nel gennaio 2003 le 16 controverse parole pronunciate da Bush, nel discorso allo Stato dell’Unione, recitano lo stesso: “Il governo britannico ha saputo che Saddam Hussein ha recentemente richiesto significative quantità d’uranio all’Africa”. Il 20 marzo, dunque, accade quello che tutti sanno: la coalizione Usa invade l’Iraq e comincia un disastro umanitario.
L’ormai ex ambasciatore, trasformatosi in uomo d’affari, figlio di marines, patriota, “moderato nel cuore”, prende carta e penna e scrive al giornale più autorevole del pianeta, il New York Times, la sua verità nell’articolo “Cosa non ho trovato in Africa”. Racconta i dettagli del suo viaggio, concludendo: “Una parte dell’intelligence connessa con il programma di armi nucleari in Iraq è stata distorta per enfatizzare la minaccia irachena”. Le conseguenze per la sua famiglia sono rovinose. La settimana successiva il giornalista del Washington Post, Robert Novak, rivela che la Plame è una spia, mettendo fine alla sua copertura e alla sua carriera. Da ogni parte arrivano minacce e diffamazioni, la coppia è in crisi. Wilson, tuttavia, decide di combattere.
Rilascia interviste e scrive il best seller “The Politics of Truth” (La politica della verità) per denunciare come questa rivelazione sia stata una vendetta dell’amministrazione Bush. Qualche funzionario avrebbe comunicato illegalmente a Novak la reale identità di Valerie. Grazie alla battaglia di Wilson, condivisa solo in un secondo tempo dalla sua compagna, “il Plame Gate” finisce in tribunale. Ma, ad oggi, la corte federale ha condannato solo Lewis Libby, ex capo dello staff di Cheney, per falsa testimonianza, spergiuro e ostruzione della giustizia. Ritirati a Santa Fe, i coniugi Wilson hanno ricomposto la loro vita, ma in Iraq lui continua a tornare come businessman, specializzato in zone di conflitto. L’avventura continua.
Com’erano le sue giornate in Iraq, quando vi lavorava come vice capo-missione dell’ambasciata Usa, fra il 1988 e il 1991?
Durante “Desert Shield” (l’operazione militare Usa che precedette la prima Guerra del Golfo, ndr.) la mia giornata tipo comprendeva la classificazione delle conference-call con Washington, riunioni strategiche con lo staff dell’ambasciata, relazioni alla stampa, incontri coi funzionari del ministero degli Esteri e, nel pomeriggio, meeting coi miei colleghi nei corpi diplomatici per coordinare il nostro approccio e scambiare informazioni. Nel tardo pomeriggio chiamavo Washington e ogni sera vedevo i capi-missione di Unione Sovietica, Turchia, Francia e Gran Bretagna. La nostra priorità era di assicurare il rilascio degli ostaggi, di far evacuare senza rischi tutti gli stranieri dal Kuwait e dall’Iraq, e di garantire che il governo iracheno capisse che facevamo sul serio.
Ed è con veemenza che nel film “Fair Game” il suo personaggio, interpretato da Sean Penn, descrive Saddam Hussein come un tiranno spietato. Qual è il suo ricordo più vivo di lui?
Quando incontrai Saddam il 6 agosto 1990, quattro giorni dopo l’invasione del Kuwait, rimasi colpito dalla sua malcelata arroganza generata dalla sua vittoria facile. Era evidentemente compiaciuto dell’audacia della sua azione. Ciò che temeva era una risposta unilaterale da parte degli americani. Si interessava ai possibili piani degli Stati Uniti e cercava di trattare con noi. Era apparentemente calmo, ma teso appena oltre questa facciata.
Dopo essere stato definito “un vero eroe Americano” da Bush senior, fu il primo a denunciare che la guerra in Iraq di Bush junior era basata su una menzogna. La sua vita e quella di sua moglie furono devastate. Entrambi avete perso il lavoro e vi siete dovuti allontanare da Washington. Che cosa l’ha spinta a scrivere il suo celebre articolo per il New York Times?
L’ho scritto perché una delle chiavi del successo del nostro sistema di governo degli ultimi 230 anni è la tradizione che si fonda sui diritti contenuti nel Bill of Rights. Secondo questi ultimi, la cittadinanza obbliga il governo a dar conto di ciò che dice e fa, in nome del popolo americano. Questo è il solo modo di impedire all’Esecutivo di usurpare il potere e di abusarne, come accadde per la seconda guerra in Iraq.
Lo rifarebbe?
Non mi sono mai pentito, neppure una volta, di ciò che avevo scritto e lo rifarei subito.
Si sente un idealista? Nel film sembrerebbe di sì…
Non direi. Sono realista e pragmatico, ma non mi piace essere ingannato.
Oggi, come uomo d’affari, torna spesso in Iraq. Come ha trovato il Paese l’ultima volta che ci è stato?
Solo due mesi fa (ottobre 2010, ndr.) a Baghdad la situazione era molto pericolosa e incline al disastro. La città è divisa in base all’appartenenza etnica e si trova sotto una pesante occupazione. Per percorrere le sei miglia che separano l’aeroporto e dalla Green Zone, la mia squadra di protezione ha impiegato 24 ore solo per pianificare il viaggio. Ho dovuto muovermi con un convoglio di cinque auto blindate. Persino pochi giorni prima della Guerra del Golfo potevo camminare per le strade senza correre rischi e senza guardie. Ora dicono che la speranza di vita di un espatriato a Baghdad, senza sicurezza, possa essere misurata in ore anziché in anni.
Povertà, assenza di acqua potabile ed elettricità, attentati, instabilità politica, disoccupazione, corruzione, abusi, giustizia sommaria. Tutto ciò non è democrazia. È veramente giusto e possibile esportare la democrazia?
No. L’idea che puoi distruggere un Paese per riformare il suo sistema politico è moralmente inaccettabile e politicamente fallimentare.
Che cosa pensa della classe dirigente irachena attuale?
Non la conosco personalmente, ma è ovvio che sta passando tempi duri per trovare i compromessi che permetteranno all’Iraq di avere un po’ di pace.
Dopo l’esecuzione di Saddam, l’amministrazione irachena ha consentito di condannare a morte Tareq Aziz e altri esponenti del regime baathista. Che tipo di giustizia è questa?
Tutte queste persone, incluso Saddam, dovevano essere consegnate alla Corte penale internazionale dell’Aja. È a tutti gli effetti impossibile che si tenga un processo equo e oggettivo nell’atmosfera che si respira oggi a Baghdad.
Ma lei è a favore o contro la pena di morte?
Contro, al 100 per cento. È barbarica, costosa, incompatibile con il concetto di pena (tirare fuori un individuo dalla sua miseria) e riduce la possibilità per lo Stato di capire le cause alla base del crimine commesso.
Obama sta ritirando le sue truppe, rimpiazzandole con migliaia di contractors. Si va verso una privatizzazione del conflitto?
Non si può negare che molte delle funzioni tradizionali dell’esercito siano già state privatizzate. È un precedente molto negativo. Inoltre, non vedo cosa stiano facendo di buono le truppe Usa che si trovano ancora in Iraq. Dovrebbero tornare a casa, subito.
Wikileaks ha denunciato abusi, morti civili e sparizioni fra gli iracheni. Responsabili: sia l’esercito Usa che quello iracheno. Da ex ambasciatore come giudica queste rivelazioni?
Come ex funzionario della sicurezza nazionale, condanno le rivelazioni che mettono a rischio fonti, metodi e vite. Ma è ugualmente terrificante che alcuni giornalisti americani stiano condannando Wikileaks. Pensavo che sarebbe stato supportato da tutti i media e che i giornalisti avrebbero protestato contro l’arresto di Assange. Ma, insisto, non è chiaro se oggigiorno negli Stati Uniti abbiamo una stampa investigativa funzionante.
Le manca la diplomazia e un coinvolgimento in politica?
Per nulla.
Con sua moglie ha contribuito alla realizzazione e alla promozione di “Fair Game”. È contento di questa esperienza?
Sì. Entrambi crediamo che tutto quello che abbiamo passato sia stato accuratamente rappresentato. Ci rallegra che il pubblico abbia trovato la nostra storia interessante o addirittura avvincente, e che il film abbia provocato emozioni forti.
Sean Penn si impegna molto per i diritti umani. Com’è stato collaborare con lui?
Sean è molto professionale e di sicuro all’apice della sua carriera. È stata una gioia lavorare con lui. Chi ha visto il film mi ha detto che ha fatto davvero un buon lavoro nel cogliere come sono.
Alcuni dicono che Hollywood sia più capace della stampa di rappresentare l’America e il mondo odierno. E’ d’accordo?
Hollywood è sempre stata la rappresentazione dell’America all’estero. La visione che gran parte della gente ha degli Stati Uniti si basa sui film.
Dopo un’esperienza così intensa, ha altri progetti per il futuro?
Al momento sono direttore di Symbion Power e presidente di Symbion Africa. Realizziamo impianti energetici in zone di conflitto e in Africa. Ciò mi tiene molto occupato e sempre on the road, da Baghdad a Dar es Salam, dallo Yemen all’Angola, dal Congo ad Haiti.