Intervista alla ricercatrice di Survival International
Salvare i bambini indigeni significa salvare il pianeta. Almeno 2 milioni di minori fra i 6 e i 18 anni, però, sono ancora costretti a frequentare le famigerate “boarding school”, “scuole di frontiera” dette anche “residenziali”, per conformarsi al sistema dominante. In varie zone del mondo un girone infernale di ultranazionalismo, estremismo religioso, sfruttamento delle risorse converge in un genocidio culturale e ambientale.
In Canada e negli Stati Uniti ne sono state vittime i nativi americani nel XIX e XX secolo. Nel nuovo millennio le scuole-prigione si trovano in vari Paesi in via di sviluppo, soprattutto in Asia. «L’India è l’epicentro delle ‘factory school’, espressione che abbiamo scelto perché questi istituti sono fabbriche di cittadini assimilati alla maggioranza della popolazione, cioè privati della loro peculiare identità», spiega ad Atlante Jo Woodman dell’organizzazione Survival International. La ricercatrice inglese è impegnata da anni in indagini sul campo che l’hanno – per sua ammissione – estremamente provata. Diversi governi vogliono cancellare i tribali, impedendo ai figli di crescere nelle loro comunità, di parlare la loro lingua e praticare la loro religione. L’intento è allevare con violenza e sottomissione nuove generazioni tutte uguali. In molte residenze forzate si ripete lo stesso schema coercitivo di abusi: impossibilità di uscire per mesi, convivenza in ambienti insalubri, percosse, stupri. Le factory school appaiono come sintomo di una malattia del mondo. Una luce, tuttavia, sta squarciando il velo di indifferenza. Woodman sta monitorando questo processo: «nell’India centrale è nato un movimento di resistenza straordinario. Gli indigeni adivasi protestano contro le compagnie minerarie che distruggono le loro foreste e finanziano le factory school».
E, nell’intervista che segue, la ricercatrice smentisce anche i pregiudizi nei loro confronti: «Non è vero che i tribali non sono interessati all’istruzione dei figli. Desiderano, invece, una buona educazione che colleghi il loro ecosistema con quello esterno in modo utile e rispettoso».
Nel 2016 Survival International ha denunciato con un rapporto la situazione nelle scuole residenziali in America Latina, Africa e Asia. Dopo sei anni che cosa è cambiato?
Niente è cambiato, niente è migliorato, ma con un’eccezione positiva. C’è un luogo nell’India centrale – nello Stato Chhattisgarh – dove gli indigeni adivasi si stanno impegnando affinché i bambini non siano portati via dalla loro lingua e dalla loro cultura. Si è formato un movimento di resistenza straordinario che supporta le comunità a difesa della foresta di Hasdeo, contro le attività minerarie e la repressione dello Stato. Ciò è accaduto “grazie” ai bambini dopo che per tanto tempo sono stati inseriti nelle factory school. Mi piacerebbe dire che questo è un progresso generale da quando è uscito il rapporto, ma non posso affermare che la situazione sia risolta. Il governo indiano desidera fortemente utilizzare queste scuole per controllare gli indigeni.