L’inurbamento interno sta modificando il panorama urbano intorno alle principali città d’Albania. Una giornata in una periferia a pochi chilometri da Tirana
A solo un centinaio di chilometri dalle coste pugliesi, l’Albania appare ancora come un mondo a parte. Nonostante una crescita del 5 per cento del Prodotto interno lordo, il 25 per cento (o forse addirittura il 30 per cento) della popolazione vive ancora sotto la soglia di povertà. Le infrastrutture scarseggiano e quasi tutte le fabbriche giacciono come ruderi abbandonati. In agricoltura si adoperano mezzi antiquati e la disoccupazione dilagante spegne le speranze delle nuove generazioni. Dopo la caduta del regime comunista, fra il 1990 e il 1992, questa “democrazia emergente”, come si legge in un rapporto della Cia, sta vivendo un periodo di transizione difficile verso il libero mercato, in bilico fra rivalsa e depressione. E dopo gli esodi di massa verso Italia e Grecia degli anni Novanta, oggi si sta intensificando un nuovo movimento di persone, in cerca di un futuro migliore: dalle montagne del nord e dell’interno alle periferie delle città più importanti.
Bathore, sotto il comune di Kamez ma a pochi chilometri dal centro della capitale Tirana, è una di queste banlieu albanesi. Una distesa a perdita d’occhio di baracche e case per lo più incompiute, dove vivono 50mila persone provenienti dalle zone remote di Kukes, Tropoje, Puka e Dibran. “A partire dal 1993 intere famiglie, che vivevano su montagne isolate e inaccessibili, si sono riversate in questi territori dove non vi era alcuna previsione di urbanizzazione. Hanno occupato in modo abusivo i terreni, costruito baracche di legno e poi, con il passare degli anni e l’arrivo delle rimesse, villette in mattoni di uno o due piani”. A indicarci la via nel dedalo di Bathore è Don Patrizio Sentinelli, un giovane diocesano di Macerata, che vive qui dal 2004, col carattere energico tipico della sua terra. Ci vuole una grande determinazione, infatti, per abitare nella favela più grande d’Albania, dove scarseggiano luce, acqua potabile, fognature, canalizzazioni, strade e recinzioni.
“In inverno è mancata la luce per molti giorni e adesso quando arriva i ragazzi esultano. Qui si gioisce per molto poco”, ci dice il missionario dandoci il benvenuto. A Bathore ci sono solo la sua missione e quella di Madre Teresa. Davanti al centro di Don Patrizio passa un lungo fiume di rifiuti, dove i bambini vanno addirittura a giocare: “Hanno portato altra spazzatura, perché hanno sentito che volevamo pulirlo”, dice il prete con sconforto. “Bisognerebbe fare attività di educazione ambientale. Ci vorranno 2mila euro per portare via tutte queste immondizie”. Ovunque ci sono rifiuti che bruciano in mezzo alla strada o nei pochi bidoni, visto che in tutto il Paese non esiste ancora un sistema di smaltimento.
Con Don Patrizio lavorano tre suore, che tengono corsi di sartoria e cucina per una ventina di ragazze dai 15 ai 18 anni. Al momento sono riunite in una classe, dove si insegna a fare il brodo di carne. Nessuna delle allieve ha avuto un’istruzione completa e ognuna di loro, senza questi corsi di formazione, sarebbe costretta a rimanere in casa per fare i lavori domestici. È una delle regole della mentalità patriarcale molto diffusa fra le genti delle montagne: “Quando le figlie diventano adolescenti, i genitori impediscono loro di uscire finché non si sposano”, ci spiega un’insegnante. “Riescono a venire qui perché abbiamo garantito una presenza controllata. Le famiglie si fidano di noi”.
Lasciata l’unica strada asfaltata, ci addentriamo nei vicoli sterrati di Bathore senza perdere di vista Don Patrizio, che invece è completamente a suo agio. Parla con tutti quelli che lo fermano, chiede come stanno e se hanno bisogno di qualcosa. “Cercano di sopravvivere”, ci confida il missionario. “Devono affrontare problemi di sussistenza primaria, come per esempio l’accesso all’acqua. Ci sono solo due fonti dove al mattino presto si formano lunghe code di persone, perché l’acqua arriva solo per due ore al giorno”.
Un’altra questione aperta di quest’area è quella della legalizzazione. Bathore, come diverse altre zone di inurbamento interno, è considerata un’area “informale”, dove gli abitanti non sono registrati. Le autorità hanno così chiesto agli abusivi di consegnare moduli con la metratura dello spazio occupato e di pagare 400mila lek per ogni 500 metri quadrati. E data la povertà diffusa di questa gente, è facile intuire che chi non sarà in grado di pagare, avrà presto un debito verso lo Stato.
Ma c’è anche chi la casa non è ancora riuscito a costruirla. Circa 400 persone vivono in ex stalle del tempo del regime. Bathore, che significa “campo di fava”, negli anni del dittatore Enver Hoxha era una zona agricola interrotta da poche casupole. Oggi dentro le stalle sono stati eretti muri divisori e in ogni vano abita una famiglia. “Quando piove si allaga tutto e non sappiamo dove andare”, ci dice un’anziana signora con il tipico fazzoletto intorno al capo, la risa, e l’abbigliamento tradizionale: camicia e gonna lunga con grembiule. “È veramente indegno qui”, commenta il prete. “Vanno a prendere l’acqua alla fonte con una carriola e la mettono in quei bidoni blu”.
Bathore può essere inteso come un microcosmo, dove si riproducono problemi e caratteri dell’intera Albania. La composizione religiosa, ad esempio, è la stessa del Paese: 70 per cento musulmani e il restante 30 per cento diviso fra cattolici e ortodossi. Nel cosiddetto quartiere numero 5 – i quartieri di Bathore sono numerati dall’uno al nove – alcuni bambini raccolgono materiali riciclabili in mezzo ai rifiuti. Si tratta dell’ennesima discarica a cielo aperto, davanti a un’immensa cava di ghiaia. “Prima di Natale il proprietario ci diede gratuitamente sei camion di sabbia e una ruspa per sistemare la strada davanti al centro missionario. Ci disse che in quanto musulmano voleva fare anche lui qualcosa per il Signore”, racconta Don Patrizio ancora sorpreso da quel gesto di generosità. Ci sono, del resto, molte cose che lo stupiscono, come una certa ingegnosità: “Quella famiglia di Puka – ci indica – in poco tempo ha occupato un pezzo di terra, coltivato un orto ed entro il prossimo anno finirà il primo piano. Vedete come si organizzano!”. Nella completa anarchia, però, non mancano guai: “Chi ha più iniziativa compra il trasformatore per la luce, ma poi molti altri si allacciano abusivamente e nascono conflitti”.
Una casalinga, con una bella casa di due piani e i panni stesi in cortile in modo ordinato, ci invita per un caffé. La sua famiglia (marito, suocera e due figli) è arrivata a Bathore da sette anni e quando chiediamo alla donna com’è vivere qui, sorride: “Adesso ci troviamo bene, ma all’inizio non avevamo nulla. È stato difficile ricominciare daccapo, ma non potevamo restare in montagna perché il terreno era troppo frastagliato e difficile da coltivare. Qui almeno mio marito ha trovato lavoro come elettricista”. La divisione dei ruoli è netta: le donne sono in gran parte casalinghe, mentre gli uomini fanno per lo più lavori occasionali.
“In ogni viuzza ci potremo fermare per ore”, aggiunge il religioso. “Tutti ci chiederebbero di entrare a prendere un caffé, secondo il forte senso di ospitalità albanese”.
Arriviamo ai confini di Bathore, salendo sulla collina di Kodra e Quche, dove un contadino pascola qualche pecora e una mucca. In cima c’è una scuola che cade a pezzi. Le voci di settanta bambini, fra i sei e i dieci anni, escono dai vetri rotti. Eppure da questo rudere del regime Tirana non è così lontana. Riusciamo a vederne i palazzi ridipinti e viene naturale domandarsi se qualcuno abbia in programma di ristrutturare questo edificio abbandonato nel suo squallore. A Bathore mancano i servizi basilari. Ci sono solo due scuole, una elementare e media e un’altra superiore, ma per il sovraffollamento di studenti funzionano a turni alterni. È venuto il momento di ripartire.
Il prete ci rivela che oltre un’altura rocciosa, che si scorge in lontananza, c’è un lago bellissimo. La strada per raggiungerlo, però, è molto più dissestata di quella che stiamo percorrendo.